L’ornamento nelle sculture classiche indiane

Oggi scopriremo insieme come gli ornamenti nelle sculture classiche indiane non siano semplicemente decorazioni fine a se stesse, ma ricoprono importanti funzioni, quali ad esempio: la sensualità, la fertilità, la protezione e molto altro ancora.

Nel corso dei secoli, la sensualità della forma del corpo, femminile e maschile, umana e divina, è stata una caratteristica dominante nella vasta e variegata tradizione artistica indiana. La figura umana — completa, elegante, adornata e accattivante — è stata infatti un tema ricorrente non solo come oggetto di rappresentazioni scultoree o pittoriche, ma anche richiami continui in opere letterarie.

Un incontro iniziale con le vivaci figure scultore dell’India — associate a templi, centri monastici e altre strutture come pozzi e giardini — talvolta spinge a giudicare in modo affrettato e ingiustificato che le sensuali immagini di pietra e di bronzo siano nude. Ad eccezione di alcuni manoscritti che riguardano l’erotica (come il kamasutra), il corpo umano nella tradizione artistica indiana non è nudo, ma si tratta molto semplicemente di un corpo ornato e l’ornamento (alankara) include sempre vestiti.
Il corpo ornato della tradizione indiana, sia maschile sia femminile, è decorato con tessuti pregiati, ornamenti di gioielli e fiori. Inoltre, è ulteriormente adornato con un’intera gamma di convenzioni che possono essere assimilate sotto il termine di “cultura del corpo“, coniata da Daud Ali. La cultura corporea comprende accurate acconciature [immagine 1 e 3], l’accentuazione della bellezza del corpo con l’unzione di oli, paste, cosmetici e profumi [immagine 2] e una serie di altre raffinatezze come ad esempio l’eleganza nel movimento, del gesto e delle posture [imamgine 4]. Qui sotto vi ho riportato qualche esempio di questi ornamenti:

Oltre alle sete e ai tessuti traslucidi, agli elementi abbondanti di gioielli, di fiori in trecce, e un elaborato sistema di acconciature e ghirlande di fiori, l’alankara comprende anche forme di disegni o tatuaggi sul corpo, come possiamo vedere nell’immagine qui affianco, sulle guance e sulla fronte della yakshi scolpite su un pilastro di ringhiera che circondava lo stupa buddhista di Bharut.
I disegni su mani e piedi continuano a sopravvivere tutt’oggi in India.

Frammento superstite della cancellata dello stupa di Bharhut raffigurante una Yakshi, foto di: Denman Waldo Ross Collection.


Durante il ventesimo secolo, specialmente in Occidente, la parola “ornamento” ha una sovrapposizione negativa quando si applica, per esempio, all’architettura, in cui i piani lisci e non adorni sono considerati eminentemente auspicabili. Già nel 1939, in risposta alla critica che considerava l’ornamento come eccessivo, A. K. Coomaraswamy esplorava l’etimologia della parola sanscrita e latina di ornamento e sottolineava che la decorazione era considerata un ingrediente essenziale per una buona opera d’arte. Il termine sanscrito alankara deriva dal significato letterale “per rendere sufficiente il rafforzamento, per rendere adeguato”, e suggerisce un miglioramento dell’efficacia dell’oggetto o della persona adornata. Così, anche il significato primario della parola latina ornare è “montare, fiorire, fornire con necessità” e solo secondariamente “abbellire”. L’ornamento venne quindi considerato come un prerequisito che si aggiungeva all’eleganza del corpo.
Coomaraswamy ha sottolineato che l’ornamento delle donne indiane “non è una questione di semplice vanità“, è, in realtà, molto di più. L’alankara è un ornamento di buon auspicio, protettivo e rende il corpo completo, bello e desiderabile. Stare senza ornamento provoca la mala sorte e l’esporsi al pericolo.

Nell’India, e soprattutto nell’ambiente pubblico, il corpo elegantemente ornato è sia appropriato sia esteticamente attraente, mentre un corpo non decorato è indegno di attenzione. Fino ad oggi, nei segmenti più tradizionali della società, l’assenza di ornamento implica il lutto e la morte nella famiglia. Un’importante funzione dell’ornamento è quella di proteggere e tutelare il suo indossatore. Può anche essere utile notare gli ornamenti pericolosi, come ghirlande di teschi e orecchini di cadaveri umani, indossati da temerari, potenti e pericolose dee come Kali.

Per concludere, l’alankara che svolge, come abbiamo visto, un ruolo così cruciale nell’ornamento delle sculture di donne e uomini, è fondamentale anche per l’abbellimento, il completamento e la protezione dell’architettura, sia del tempio sia del palazzo. L’ornamento del tempio con forme architettoniche in miniatura non è un’opportuno ornamento aggiuntivo.
L’alankara ha avuto un contenuto simbolico di auspicio, protezione e apotropaico. Ad esempio, le immagini delle coppie felici, che simboleggiano la beatitudine materiale, avevano una connotazione di stabilità e di prosperità di lunga durata nel contesto della città. Oltre a valorizzare e affidare l’auspicabilità e la protezione di spazi sacri e secolari, l’alankara ha mantenuto il significato artistico più profondo di affascinare la mente dello spettatore e di creare una maggiore consapevolezza, pur soddisfacendo uno scopo sacro. I shilpa-shastas, i testi che forniscono istruzioni per architetti e scultori, contengono interi capitoli che trattano minuziosamente particolari e dettagli sull’ornamento delle strutture architettoniche.

Facci sapere nei commenti se anche tu utilizzi gioielli, oltre per abbellire il corpo, come strumenti di buon auspicio, protezione e portafortuna.

Max

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Monte Fuji: dimora degli spiriti

In questo breve articolo vi parlerò dell’importanza che riveste il Monte Fuji per i giapponesi, concentrandomi sull’opera di Katsushika Hokusai: il “Fugaku Hyakkei” ovvero le 100 vedute del monte Fuji.

Katsushika Hokusai è uno dei più celebri artisti giapponesi appartenenti al filone dell’Ukiyo-e, parola che significa “immagini del mondo fluttuante”.  Nelle sue stampe egli rappresenta la società del suo tempo, i paesaggi e le persone dell’epoca, raffigurando il Giappone del XIX secolo in tutte le sue sfaccettature.
Considerato l’artista giapponese più conosciuto al mondo, egli infatti fu d’ispirazione per i pittori occidentali, quali impressionisti e post impressionisti europei.
Pittore e incisore, realizzò una pittura capace di una conciliazione artistica tra l’arte tradizionale giapponese con le influenze occidentali. La grandezza di Hokusai è racchiusa proprio nel saper imprimere nelle sue stampe la mutevolezza della natura.

Il Fugaku Hyakkei – Le cento vedute del monte Fuji – sono una serie di silografie edite in tre album in formato hashibon, rilegati alla maniera dei libri popolari giapponesi di questo periodo. Sono stampate in sumizuri con inchiostro nero, definite da sfumature e gradazioni di grigio. Contengono ciascuna una trentina di silografie molte delle quali occupano le due pagine.
Il titolo promette 100 vedute del monte Fuji, ci si aspetterebbe quindi di trovarsi di fronte a una raccolta di paesaggi, ma ci si rende subito conto che non è il puro paesaggio ad essere il vero protagonista del libro e anche se la sagoma della sacra montagna compare quasi sempre sullo sfondo, non fai praticamente mai bella mostra di sé; fa piuttosto da guardiano ad un operosa umanità sempre impegnate in una qualche attività lavorativa oppure semplicemente in cammino verso una qualche meta.
A differenza del suo collega Hiroshige che: attratto dalla pittura di paesaggio di Hokusai, sperimentò questo nuovo genere, da prima imitandolo e poi elaborando un proprio stile, che appare nettamente definito nelle serie di stampe dedicate alle “53 stazioni delle strada di Tōkaidō“, ricche di scene di città pittoresche, dove il paesaggio è portato a svolgere un ruolo di primo piano.
La raffinatezza di questa serie sta anche nel fatto che Hokusai rinuncia alla gamma di colori della quale aveva fatto ampio uso nella serie precedente intitolata “Trentasei vedute del Monte Fuji“, per una resa in bianco e nero.

Cantava un poeta dell’VIII secolo:
Da quando il cielo fu separato dalla Terra, orgoglioso, nobile, divino, troneggiava il monte Fuji”.

Uno dei motivi per il quale il Fuji è interpretato come monte sacro è dovuto all’influenza esercitata dalle numerose pratiche Shintō che regolavano i ritmi e la vita nell’arcipelago e che fecero della natura e delle sue innumerevoli manifestazioni un oggetto di culto, espressioni terrene dei Kami (divinità).
Per lo Shintō, infatti, il Fuji è chiamato anche Yama no Kami, ovvero dimora degli spiriti, dei ancestrali della montagna personalizzati nella divinità di Konohana Sakuya Hime, discendente di Inzanami e Inzanagi, la coppia divina che originariamente, secondo la mitologia, ha creato l’arcipelago del Giappone.
In epoca Edo, a partire dal Seicento sotto lo shogunato Tokugawa (1603 – 1868), si sviluppò un movimento di culto detto Fujiko con gruppi di pellegrini che scalavano il monte sacro come segno di devozione.

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Katsushika Hokusai, Fugaku Hyakkei, vol.1,  tav. 5

Anche Hokusai rappresenta nella sua opera questa tradizione tutt’ora praticata: la scena è ripresa dall’alto e ci mostra una gran quantità di ajirokasa, un tipo di copricapo molto comune nel Giappone dei Tokugawa.

Naturalmente sotto ciascuno di essi c’è un pellegrino del quale individuiamo anche la punta del bastone.

L’elemento che attira subito il nostro sguardo è il volto umano di un pellegrino che sta soffiando in una conchiglia.

Lo stesso culto del Fujiko confermò anche la divinità principale del Fuji, venerata nei santuari presenti sul monte e negli altari di famiglia.

Si tratta delle dea Konohana Sakuya Hime, di cui raccontano le prime cronache sulla mitologia delle origini dell’arcipelago dell’VIII secolo presenti nel Kojiki.
Il nome significa letteralmente “Principessa luminosa come l’albero fiorito”, ovvero la principessa che fa fiorire i ciliegi.
Nella mitologia giapponese la dea Konohana Sakuya Hime occupa un posto di primo piano in qualità di divinità a cui è affidata la sacra montagna del Fujiyama.
Dea dei fiori e associata al fuoco e forse per questo successivamente anche al Fuji (trattandosi di un vulcano), a cui la città di Fujiyoshida dedica ogni anno il 26 agosto la “cerimonia del fuoco” accendendo torce in suo onore e chiudendo la stagione di scalinata del Fuji.

Immagine

Katsushika Hokusai, Fugaku Hyakkei, vol. 1, tav. 1

Questa disegno ci mostra una bellissima donna che indossa un abito d’elegante fattura ma stropicciato all’inverosimile, in deciso contrasto quindi con l’armonia del volto composto e solenne incorniciato da una nerissima capigliatura fluente e ordinata, certamente un volto di una Dea. Nella mano destra presenta, tenendolo ben alto e visibile, uno specchio tondo, mentre con la sinistra regge, appoggiandolo a una spalla, un ramo sacro di sakaki.
Per i giapponesi lo specchio è il simbolo più elevato in quanto emblema della grande Dea Amaterasu, oltreché espressione di chiarezza e sincerità d’animo. Anche in questo caso è presente il monte Fuji: l’immagine di Konohana personifica la sacra montagna.

Articolo scritto il 27 febbraio 2016

Scritto da: Max

Hokusai, Hiroshige, Utamaro

Ormai siamo quasi al volgere dell’anno e come chiudere in bellezza quest0 150° anniversario della conclusione del Trattato di Amicizia e di Commercio tra Giappone e Italia? Sicuramente con una bella mostra tematica caratterizzata da numerose opere, la cui maggior parte provenienti dall’Honolulu Museum of Art (il che rende ancora tutto più eccitante e irripetibile, considerando che un viaggio in America costa e non poco, almeno per me) ricca di opere, colori, spunti e riflessioni.
Una mostra che per i suoi contenuti, temi, soggetti, difficilmente sarà proposta nuovamente, almeno non subito. Il Giappone come avrò ribadito in più articoli è amato da molti, per il suo fascino artistico e culturale, ma è difficile organizzare qualcosa di concreto qui in Italia, se non per un forte impegno da parte di più persone. Non a caso l’ultima mostra di rilievo in tal senso è stata fatta nel 2010.

Tornando a noi, la mostra in questione sicuramente l’avrete già vista o sicuramente l’avrete messa in programma, si tratta di Hokusai, Hiroshige e Utamaro, la grande rassegna che il Palazzo Reale dedica ai tre grandi maestri dell’ukiyoe (immagini del mondo fluttuante), corrente artistica nata in epoca Edo caratterizzata da silografie dall’estremo impatto visivo. I soggetti principali o meglio i filoni di queste silografie sono: le raffigurazioni di luoghi celebri (meishoe), le beltà femminili (bijinga) e ritratti di attori kabuki (yakushae).

La mostra curata da Rossella Menegazzo, docente di Storia dell’Arte dell’Asia orientale e di Arti visive, design e spettacolo dell’Asia orientale dell’Università degli studi di Milano, si articola in una ben preciso percorso tematico attraverso silografie e libri illustrati, accompagnando il visitatore in un viaggio emozionante nel mondo dell’ukiyoe.
Questi percorsi tematici si articolano principalmente nella raffigurazione della natura e delle sue sfaccettature, quindi paesaggi, luoghi celebri, animali, di cui grandi esponenti sono Hokusai e Hiroshige:

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e nella rappresentazione delle beltà femminili, dai ritratti fino alla rappresentazione di scene quotidiane in cui sono protagoniste, realizzate da Utamaro:

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per giungere infine all’ultimo percorso tematico dedicato invece ai libri illustrati, i cosiddetti manga, di Hokusai.

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Tuttavia di una mostra non bisogna solo tener conto delle opere esposte ma anche l’allestimento e la comunicazione promozione di essa ricopre un ruolo fondamentale.
Al di là del contenuto della mostra che piacerà sicuramente a tutti trattandosi di Giappone, l’allestimento è  stato decisamente ben curato: gusto estetico orientale, l’illuminazione che non ostacola la visione dell’opera e molto altro ancora che noterete sicuramente alla mostra (come l’ultima sala ahahaha).
Per quanto riguarda invece la comunicazione e la promozione di tale evento è stato fatto altresì un ottimo lavoro: grandi manifesti raffiguranti l’icona grafica dell’ukiyoe, la grande onda di Hokusai, non solo in centro ma anche nelle periferie; numerosi comunicati stampa; giochi/eventi a tema; interviste. Lo stesso catalogo della mostra è ben curato e ricco di saggi critici, un’ottima idea regalo per gli appassionati di arte giapponese 😛

Quindi da come avrete potuto intuire è una mostra che merita di essere vista, non saranno soldi buttati all’aria, come invece lo è stato per la mostra su Boccioni!! L’unico consiglio che posso darvi è quello di andare alla mostra considerando almeno tre ore circa di visita (anche perché all’interno della mostra c’è un bellissimo filmato, che merita di esser visto e di cui non vi anticipo l’argomento, che dura una ventina di minuti circa. Molte persone, forse per impegni, hanno saltato la visione del filmato, o visto solo in parte 😦 ).

Per i nostri lettori non di Milano e impossibilitati a vedere la mostra ecco alcuni video inerenti. Non possono di certo sostituire la mostra ma possono lasciare un’idea su come è impostata e su quali opere ospita.

O anche la conferenza stampa di presentazione della mostra per ricevere più informazioni dettagliate e approfondimenti    inerenti all’argomento. https://www.facebook.com/HokusaiMilano/ (andare sulla voce “video” e cliccare il primo).

Per chi se lo fosse perso, lascio anche il link di un’approfondimento su Utamaro che feci mesi fa: https://spuntisullarte.wordpress.com/2016/06/26/le-donne-di-utamaro/

Scritto da Max

Le donne di Utamaro

Questa settimana, non per farla apposta, sono stati trattati due articoli dedicati alla rappresentazione della donna nell’arte di due artisti, uno occidentale e uno orientale. Nulla che cade nel ripetitivo visto e considerato che le due rappresentazioni femminili, in Occidente e Oriente, sono totalmente diverse dal punto di vista tecnico e stilistico.
Oggi parlerò con voi delle donne di Utamaro, donne qui intese come soggetti prediletti dell’artista e non amanti.

Kitagawa Utamaro fu un pittore e disegnatore giapponese, considerato uno dei maggiori esponenti del filone dell’ukiyo-e (immagini del mondo fluttuante).
Guardando le sue opere nel complesso, ricche di stampe a colori, illustrazioni e dipinti, appare subito evidente quale sia stato l’aspetto maggiormente indagato, preferito da questo artista giapponese: le donne, ovvero la bellezza femminile, colta nei più variegati atteggiamenti. Tema questo che sarà uno dei più rappresentativi nel filone dell’ukiyo-e.

La Serie delle dodici ore nelle case verdi fu pubblica nel periodo che unanimemente riconosciuto come il migliore dell’intera produzione artistica di Utamaro. Esso si può far iniziare tra il 1792 e il 1793, con la pubblicazione di otto fogli suddivisi in due serie che sembrano essere l’una la continuazione dell’altra, tanto che una delle composizioni compare sia nella prima che nella seconda serie.
Alla prima raccolta, denominata Dieci studi fisionomici di tipi femminili, appartengono cinque fogli, tra cui:

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La seconda raccolta, nota come Dieci classi di fisionomie femminili, fanno parte:

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La scelta di ritrarre le bellezze a mezzo busto, una colorazione delle vesti tenue, il fondo neutro, arricchito da una stesura omogenea di polveri metalliche di mica di tonalità rosata che ben si accorda con la cromia delicata dell’incarnato, sono tutti elementi che fanno di queste composizioni un punto di svolta nella storia della pittura giapponese, sia nella carriera di Utamaro.

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Donna che legge una lettera, Serie delle Dieci classi di fisionomie femminili

In questa stampa policroma, la giovane donna che legge una lettera è una sposa, come indicano le sopracciglia rasate, l’ampia cintura (obi) legata sul davanti e i denti anneriti. Alcuni di questi fattori (denti anneriti e obi sul davanti) caratterizzano anche le cortigiane, ma certo non le sopracciglia rasate.
Questa beltà, la cui pelle, del viso come delle braccia, viene fatta rifulgere dallo sfondo in mica bianco-argenteo, sta avidamente leggendo la lettera che tiene in mano e va ripetendo a voce alta il testo. Lo sguardo fisso, il collo sporto in avanti, il volto leggermente rivolto verso l’alto sembrano indicare uno stato di stupore. Le vesti hanno colori sobri e senza fronzoli, da cui però Utamaro fa sbucare ai polsi il rosso della veste interna, lo stesso delle labbra socchiuse.

cr-kitagawa_utamaro_03Altra stampa, che mi piace particolarmente e che quindi voglio condividere con voi, caratterizzata da una composizione a piramide è Tre beltà dei giorni nostri, le tre più celebri beltà degli anni novanta del Settecento, in cui sono ritratte Naniwaya Okita, in basso a destra, Takashima Ohisa, in basso a sinistra, e infine Tomimoto Toyohina, in alto al centro.
L’individualità dei caratteri è qui affidata ad alcuni particolari del viso delle tre dame, dalla diversa curva dei nasi alle dimensioni della bocca; inoltre segni di riconoscimento inequivocabili sono i fiori di paulonia e primula che compaiono sugli abiti delle tre figure.

Queste sono solo alcune delle stampe realizzate da Utamaro, ma adesso vi mostro anche qualcosa di pittorico. Mentre attendeva alle sue più importanti opere in serie, Utamaro riuscì anche a dedicarsi alla pittura vera e propria, non di preparazione alla stampa.
Le figure femminili rimasero il suo tema preferito anche nei dipinti, elaborati con una grande consapevolezza dei propri mezzi tecnici e un’elegante scelta cromatica.

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Nel dipinto Le tre stelle della Felicità, della Salute e della Longevità (mi scuso in anticipo con la qualità dell’immagine, che non rispecchia fedelmente la qualità dell’originale), la composizione è equilibrata, giocata anche in questo caso da dinamismi piramidali, con il lungo e ampio abito della beltà stante quasi usato per elevare gli altri due personaggi femminili seduti. Non mancano poi punti di introspezione psicologica, a partire dalla tematica scelta, con la giovane dama a simboleggiare la Felicità, la madre con i due bambini a rappresentare la Salute e, infine, la vecchia donna quale emblema della Longevità.
L’opera si presta inoltre a un’ulteriore lettura iconografica, potendo essere interpretata anche come “le tre età della donna”. Ed è un ottimo esempio delle capacità di Utamaro nell’analisi dell’universo femminile.

Altro ritratto efficace è quello di Beltà che si gode la frescura. Contemporaneo del precedente (1794-95), si nota il diverso tipo di commissione: il dipinto era probabilmente destinato al godimento personale dell’acquirente.

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La posa della dama è rilassata e sensuale, mentre grande è il fascino del kimono nero che,  ricadendo sciolto lungo la spalla sinistra, esalta il rosso della sottoveste, altrimenti solo intuito attraverso le magistrali trasparenze del lungo abito corvino.

Ebbene siamo arrivati alla conclusione di questo viaggio, prima di lasciarvi voglio mostrarvi qual è la mia stampa preferita, che in un qualche modo incarna in sé tutti gli elementi sopra citati, un’opera quindi di estrema bellezza e grazia. Un’opera forse, rispetto a quelle precedenti, che sicuramente avrete visto da qualche parte.

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Kitagawa Utamaro. Ohisa della Takashimaya, 1795, formato obam (stampa grande)

Ohisa è alla toilette e, con due specchi, sta controllando sia il volto sia la nuca, una zona eroticamente eccitante in Giappone come in occidente la scollatura.
Sullo stipetto in lacca nera, a destra, col portaspecchio, un piccolo recipiente col rosso per le labbra.
Che si tratti di Ohisa lo si può capire sia dal retro dello specchio che porta il carattere “taka” oltreché uno stemma con tre foglie di quercia in un cerchio che è di frequente associato alla ragazza, sia risolvendo il rebus proposto dalle figure del cartiglio quadrato. Nel cartiglio verticale invece stanno due riferimenti all’età di Ohisa: il primo, indicanti le sere senza luna, cioè verso il diciottesimo, e il secondo, il giorno della grande festa di Asakusa, ugualmente il diciotto.

Scritto da Max

Tadao Andō e la dimensione naturale

“Io creo un ordine architettonico sulla base della geometria… Tento di usare le forze dell’area dove sto costruendo, per ripristinare l’unità tra la casa e la natura, che fu perso nel processo di modernizzazione […]”

Fautore dell’armonica fusione tra la dimensione artificiale e la dimensione naturale, Tadao Andō viene considerato il più famoso architetto autodidatta del mondo poiché, prima di dedicarsi all’architettura, ebbe una carriera lavorativa molto varia.
La sua formazione si basa infatti sull’intensa lettura e su un elevato numero di viaggi che, da giovane, aveva intrapreso prima in Europa e poi negli Stati Uniti, per immergersi nello studio di architetture storiche e contemporanee.

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Fortemente influenzato dal movimento moderno e, soprattutto, dalle idee e dai criteri di funzionalità presenti nelle opere di Le Corbusier, le architetture di Andō sono saldamente legate alla tradizione giapponese per la resa dei dettagli. I suoi edifici si basano tutti sulla dimensione del tatami, orientativamente lo spazio occupato da una persona sdraiata (90 cm x 180 o, nel caso del mezzo tatami 90 cm x 90 cm) sulla tradizionale pavimentazione giapponese composta da pannelli rettangolari affiancati.

È quindi noto che il suo stile esemplare, che prevede solo l’utilizzo del cemento a vista associato al legno o alla pietra, evoca la materialità e il collegamento tra gli ambienti e, i suoi edifici sono spesso caratterizzati da volumi tridimensionali che si incrociano nello spazio, sia che siano all’interno o all’esterno.

Il suo approccio all’architettura viene talvolta classificato come regionalismo critico, un criterio che cerca di opporsi, privilegiando il contesto geografico, a quell’idea di mancanza di identità che caratterizza tutte le architetture contemporanee.

Due sono gli edifici che, nella loro complessità, sottolineano questo suo amore per la natura o, comunque, per gli elementi naturali: la Cappella sull’acqua a Tomamu del 1988 e la Chiesa della Luce a Ibaraki del 1989.

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Tadao Ando, Cappella sull’acqua, Tomamu, 1988

La Cappella sull’acqua è inserita su un altopiano delle montagne di Hokkaido, la regione più fredda del Giappone. In pianta, la cappella è formata dalla sovrapposizione di due quadrati, uno piccolo e uno grande, e si affaccia su un laghetto artificiale ottenuto deviando un ruscello che scorre nelle vicinanze.

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Tadao Ando, Particolare dell’arredo della Cappella sull’acqua

Un muro indipendente a L circonda il retro dell’edificio e un lato del laghetto. Alla cappella si accede dal retro e il percorso costeggia il muro. Il mormorio dell’acqua accompagna i visitatori lungo il percorso , senza che essi vedano il lago. Dopo una curva, si sale per un sentiero in lieve declivio, fino a raggiungere la zona di accesso alla cappella, chiusa sui quattro lati da vetrate, una sorta di contenitore di luce. Percorsa la cappella, il visitatore ritrova la vista del lago: attraverso la parete di vetro davanti all’altare si scorgono la distesa d’acqua e una grande croce.
L’arredo è stato progettato apposta per questa cappella, soprattutto le sedie. Queste hanno un effetto rilassante sul fruitore e riecheggia l’estro geniale di una chiesa che invita al risveglio dei sensi e alla fratellanza con la natura.

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Ora, invece, focalizziamoci sull’altro esempio, la Chiesa della Luce.

La Chiesa della Luce, progettata per Ibaraki Kasugoaka Church e ubicata nel quartiere residenziale di Ibarakisobborgo di Osakainvece, riprende tutti i temi profondi dell’architettura di Tadao Andō.

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Tadao Ando, Chiesa della Luce, Ibaraki, 1989

Lo spazio, il silenzio, la nuda geometria della forma prismatica, tagliata da un muro inclinato di 15 gradi e la luce che penetra dal taglio cruciforme sulla parete dietro l’altare, verso il quale si è accompagnati dalla lieve pendenza dell’edificio, realizzano uno spazio mistico che può avere eguali solo nella Cappella di Ronchamp di Le Corbusier. A differenza di questa, caratterizzate da forme curve e superfici inclinate, la Chiesa della Luce propone un semplice volume prismatico, costituito da tre cubi e tagliato da un muro che si ferma a 18 cm dall’intradosso della copertura, facendo penetrare all’intero una lama di luce.

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Vi si accede lateralmente, accompagnati dall’inclinazione del muro che taglia il volume, tornando verso il fondo ed entrando di colpo nell’aula ecclesiastica in calcestruzzo a vista, sulle quali la luce gioca un ruolo fondamentale in quanto, proiettandosi sulle pareti in modo variabile secondo il corso del sole, genera delle sensazioni che rendono lo spazio vibrante e pieno di tensione.

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Tadao Ando, Chiesa della Luce (particolare del taglio cruciforme)

Gli arredi e il pavimento dell’aula sono in tavole grezze di cedro scuro, seguendo uno spartano criterio di economia e di semplicità che rende il corpo dell’uomo partecipe dell’architettura

Tra il 1997-98 è stata progettata un’addizione, completata nel 1999, che comprende locali ad uso della comunità, uffici e servizi, in un volume separato dalla cappella mediante un muro di calcestruzzo parallelo a quello che interseca l’aula. Tra essi va ad inserirsi una scala, detta scala di Giacobbe.

Gli effetti di luce e di trasparenza di questo corpo di fabbrica, nel quale domina il legno chiaro, fanno da contrappunto alla controllata oscurità della cappella.

Voglio attirare la vostra attenzione su questo video che, utilizzando la tecnica del rendering, ci permette di percorrere e di vedere tutta la struttura e la bellezza di questa bellissima costruzione:

Per concludere vi lascio con una citazione dello stesso Andō per spiegare questa sua passione per la luce:

“La luce porta vita negli oggetti e unisce spazio e forma… ai mutamenti naturali affido il compito di produrre forme semplificate e il dispiegarsi di complessi scenari.”

Scritto da Malerin

Il Grande Buddha di Nara

Anche questa settimana mi occuperò di un argomento di arte orientale: dall’India ci spostiamo nuovamente in Giappone per dedicarci alla scoperta, per chi non lo conoscesse, o alla rivisitazione, per chi invece ne fosse già al corrente, del Grande Buddha di Nara o semplicemente il Buddha Rushana, collocato nel complesso templare del Tōdaiji (Nara, situata nell’isola di Honshu).

Il tempio Tōdaiji è una delle più importanti architetture d’epoca Nara, destinato a divenire uno dei centri principali del buddhismo all’interno della rete di templi indicati dalla corte imperiale come detentori della dottrina ufficiale di stato di quell’epoca.
Voluto dall’imperatore Shōmu (regno 724-749) ed eretto nella parte orientale della capitale Nara, il tempio rappresenta anche la massima espressione del mecenatismo imperiale verso la nuova religione.
Questo tempio subì nel 741 un rinnovamento, diventando tempio provinciale di Yamato con il nome di Konkōmyōji, mentre fu denominato Tōdaiji dal 747, quando cominciò la costruzione degli edifici principali.

Si estendeva su quattro isolati della capitale, era circondato da mura e arrivava fino alle colline di Kasuga. Aveva un portale principale, il Nandaimon, e altri tre che portavano in città. Una volta varcato il portale, si entrava nel recinto del Daibutsuden, la sala del Grande Buddha, affiancato a est e a ovest da due pagode a sette piani.
L’ingresso principale di questo maestoso tempio si affaccia su un piccolo viale ai margini del parco di Nara, all’entrata del quale è possibile vedere numerosi cervi, animale sacro simbolo di Nara, come potete voi stessi evincere da queste foto:

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Ecco un plastico che riproduce fedelmente la struttura templare del Tōdaiji (originale e non quella che vediamo noi oggi), cosi che possiate avere un’immagine completa delle sue parti:

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Il Tōdaiji fu completato nel 789 e il dispendio di risorse umane e finanziare da parte della corte fu tale da portare lo Stato sulla soglia della bancarotta.

Ma in questa sede non voglio parlarvi del complesso templare nelle sue parti, ma del Grande Buddha e quindi analizzerò la sola struttura che lo contiene, il Daibutsuden, ovvero la sala del Grande Buddha.

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La sala del Grande Buddha è oggi una delle attrazioni turistiche maggiori, perché ospita al suo interno la scultura gigante del buddha Rushana.
In origine questo edificio principale del tempio era affiancato da due pagode, che andarono distrutte nella guerra fra i Taira e i Minamoto nel 1180. L’edificio in origine era in realtà almeno un terzo superiore per dimensioni rispetto a questa ricostruzione degli inizi del XVIII secolo, che rimane tuttavia la più grande architettura lignea del mondo.
Struttura a doppio tetto mediano, con aggiunta di finestre centrali aperte che permettono di vedere il Buddha dall’esterno; in calce bianco e legno scuro che creano un forte contrasto; il tutto  circondato da un enorme parco.

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Buddha Rushana, 752, bronzo dorato, h 14,73 m, Nara, Todaiji

Rushana venne fuso in loco in 8 parti separate con l’impiego di oltre 900.000 artigiani, e il lavoro durò 11 anni, fino al completamento nel 752.

Il Rushana originale e il padiglione che lo ospita vennero ripetutamente danneggiati durante le guerre.
Quella che vediamo oggi è una scultura del 1692 (Epoca Edo), più bassa di 1 metro rispetto all’originale e con la testa tutt’altro che in stile Tang.

 

A completamento della statua, nel 752, fu organizzata, in presenza dell’imperatore Shōmu, la cerimonia sacra di inaugurazione che consisteva nella “apertura dell’occhio” del buddha, dipingendone le pupille, per consacrarla e donarle lo spirito divino. Gli addobbi e gli oggetti rituali utilizzati durante questa cerimonia sono ancor oggi conservati nel tempio.
Vi si svolsero danze e musiche usate nelle cerimonie buddhiste e vennero impiegate maschere lignee e con parti mobili, in qualche caso anche comiche, che venivano indossate sopra il capo.

Questa cerimonia fu poi ripresa anche per le ricostruzioni successive, come possiamo anche notare da questo doppio paravento a sei ante. Il paravento illustra la cerimonia di “apertura dell’occhio” del nuovo daibutsu fuso nel XVIII secolo su volere dello shōgun e l’inaugurazione del Daibutsuden.
La visione della cerimonia è aerea e viene data preminenza alla statua posizionata al centro, mentre tutto il resto fa da coreografia. Si vedono file di gente ordinatamente disposte lungo i due perimetri, un palcoscenico e grandi tamburi usati nelle cerimonie (ōdaiko).

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Cerimonia di consacrazione per la ricostruzione del daibutsu e del Daibutsuden, XVIII secolo, colore e foglia d’oro su carta, paraventi a sei ante, Nara, Todaiji

La statua è in bronzo e l’aureola in oro, quest’ultima è stata completata nel 771, lavorata a giorno e con figurine di tanti buddha sottostanti lavorati in foglia d’oro. Rushana è nella solita posizione di accoglienza e calma verso il fedele; la statua è massiccia e lavorata in modo semplice, con il torace liscio, ampio e vigoroso, con spalle possenti e in scala esagerata.
La sua figura è ripresa nelle figurine di Shaka incise sui 56 petali di loto bronzei che formano il piedistallo su cui il Grande Buddha è assiso nella posizione del loto, esse rappresentano i diversi universi governati da Shaka. Lo stile utilizzato era quello possente dei Tang e significò un cambiamento per il Giappone. Davanti alla statua vengono fatte grandi offerte.

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Altra particolarità (stranezza? nulla in Giappone è strano ahahahaha) riguarda una delle colonne portanti del Daibutsuden: una di esse infatti ha un foro nel mezzo e si dice che sia della stessa grandezza delle narici di Rushana; i visitatori cercano di passarvi nel mezzo perché la leggenda dice che chi riuscirà ad attraversare il foro sarà benedetto con l’illuminazione nella vita futura.
Potete ben immaginare le foto buffe di turisti e non su tale “ricorrenza” (non le metto, ma le trovate su internet). Comunque lo farei anche io ovviamente 😀

Scritto da Max

La pittura monocroma di Sesshū Tōyō

Nelle scorse settimane mi sono occupato prevalentemente di arte occidentale e oggi, dopo tanto tempo, eccomi qui a scrivervi un nuovo articolo sull’arte orientale, in particolare su quella giapponese (vi prometto che tratterò anche articoli inerenti all’arte indiana).
Questa settimana ho avuto il piacere di partecipare ad una conferenza sull’arte giapponese, cui argomento è stato: “Il senso dello spazio nella pittura di paesaggio su paravento” di Rossella Menegazzo. Una conferenza molto interessante e ricca di spunti che mi hanno aiutato a scegliere l’argomento da trattare per questo articolo.
In tale conferenza è stata lungamente menzionata la pittura monocromatica e sarà l’argomento di cui tratterò oggi.
Farò una breve introduzione a questo tipo di pittura per chi si approccia all’arte giapponese da principiante e poi mi soffermerò sulla figura di Sesshū Tōyō, uno degli artisti che portò la pittura monocroma a inchiostro e il paesaggio a livelli insuperabili.

Esistono due termini per indicare questo tipo di pittura monocromatica giapponese e sono: Sumi-e (pittura a inchiostro) o Suibokuga (pittura ad acqua e inchiostro).
Questi termini indicano una pittura fatta solo d’inchiostro, una pittura fatta di pennellate rapide, di infinite sfumature di inchiostro che vanno dal bianco della carta lasciata a riserba, al nero più denso ma con infinite sfumature di grigio.
L’arte della pittura a inchiostro ebbe origine nella Cina dei Tang (618-907) e si sviluppò sotto la dinastia Song (960-1279) attraverso i cosiddetti “sei essenziali”, i caratteri fondamentali individuati da Jing Hao: soffio, ritmo, spirito, scena, pennello e inchiostro. Se l’interazione degli ultimi due elementi e delle tre nozioni collegate al sostrato intellettuale e filosofico che i pittori cinesi collegavano al paesaggio permetteva di cogliere l’essenza interna e l’aspetto esteriore dello stesso, allora il colore non serviva più e la pittura monocroma poteva imporsi e collegarsi sempre più strettamente con l’arte della calligrafia.
Il sumi-e fu portato in Giappone nel XIII secolo dai monaci zen, fiorendo in epoca Muromachi (1333-1573) soprattutto all’interno dei templi zen. I centri religiosi la usavano come supporto alla meditazione e i monaci la praticavano a diversi livelli, privatamente ma soprattutto come disciplina.
Un esempio di questo rapporto arte-religione (zen) per la meditazione, è sicuramente l’opera di Josetsu, monaco al servizio dello shōgun Ashikaga Yoshimochi come pittore ufficiale presso il Shōkokuji di Kyoto.

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Josetsu, Pescegatto e zucca, rotolo verticale, inchiostro e colore tenue su carta, 1415 circa, Kyoto

Il dipinto rappresenta in inchiostro nero e tenui colori il famoso apologo zen: “Come catturare un grosso e scivoloso pescegatto con una zucca dal collo sottile“.
Erano frasi usate dal maestro per stimolare la meditazione da parte degli allievi; questi alla cui soluzione si doveva giungere per intuizione.
Il pescatore è ritratto al centro della composizione, in primo piano rispetto al paesaggio accuratamente dipinto, mentre, curvo sulla sponda del fiume, cerca di catturare un pescegatto troppo grosso maneggiando una zucca.
La parte superiore del dipinto è occupata da 31 iscrizioni, poesia, ognuna delle quali reca alla fine, in basso a sinistra, il sigillo rosso del monaco poeta zen.

Questo filone della pittura monocromatica è caratterizzata soprattutto di vuoti, di mancanze, piuttosto che di riempimenti, di sottrazione piuttosto che di aggiunta e di linee essenziali appunto in inchiostro nero. Una pittura che inizialmente è più vicina alla tradizione cinese, in particolare al paesaggio, come potete vedere voi stessi nell’opera di Tenshō Shūbun .

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Pitture che riempiono completamento lo spazio pittorico dei paraventi con retaggi che in questo caso si rifanno a tutti i simboli del paesaggio cinese: montagne rocciose molto appuntite, con un bacino centrale d’acqua.

Prima di parlarvi di Sesshū Tōyō, vi porto un ultimo esempio, il più significativo ed evocativo di questo filone, l’opera di Hasegawa Tōhaku, che potete vedere in questa coppia di paraventi a sei ante:

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Hasegawa Tōhaku, Pini nella nebbia, fine XVI secolo, coppia di paraventi a sei ante (1° paravento), inchiostro su carta, Tokyo

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Hasegawa Tōhaku, Pini nella nebbia, fine XVI secolo, coppia di paraventi a sei ante (2° paravento), inchiostro su carta, Tokyo

Realizzati con il solo uso dell’inchiostro nero, questi due paraventi, aventi come soggetto un semplice bosco di pini, rappresentano il capolavoro della pittura monocroma giapponese. Evocano uno stato senza tempo e uno spazio profondo e dilatato.
I due gruppi di pini lunghi e sottili sono separati da un ampio spazio vuoto e nebbioso.
Due gruppi di pini lunghi e sottili, circondati dalla bruma, che in qualche caso nasconde parte dei tronchi in primo piano. Sul primo pannello del paravento di sinistra (il secondo) in alto la bruma sembra però lasciar intravedere un profilo di montagna. I tronchi sono un tratto verticale tracciato con il pennello dall’alto verso il basso, in modo libero. Gli aghi di pino, neri o quasi invisibili, apparentemente realizzati con brevi e veloci pennellate verso l’alto, sono in realtà il risultato di piccoli e continui movimenti a vortice della punta del pennello.

Sesshū fu l’artista che indiscutibilmente portò la pittura monocromatica a inchiostro e il paesaggio a livelli insuperabili, liberandosi dalla funzione religiosa che fino ad allora aveva imperato. I suoi dipinti, in formato di rotolo orizzontale o da appendere o di grandi paraventi, sono dimostrazione della sua unica ispirazione: la natura.  Sono opere di enorme impatto visivo per l’abilità nell’uso del pennello e dell’inchiostro, ora spesso e nero ora liquido e tendente al grigio, nel tracciare o accennare linee spezzate, energiche, dai contorni netti e dalla struttura equilibrata, o nel creare superfici più morbide, brumose, acquose.

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Queste due opere, realizzate su rotoli verticali, rappresentano un paesaggio in inverno e in autunno. Risalgono grosso modo al periodo in cui Sesshū torna dal suo viaggio in Cina che gli permisero di entrare in contatto diretto con la pittura paesaggistica cinese.

Realizzati con un limpido stile shin, i due dipinti, mediante vigorose pennellate che disegnano le rocce ed un sapiente uso dei toni d’inchiostro per rendere la profondità, riescono a condensare, in un piccolo spazio e per mezzo di pochi elementi, la grandezza della natura e a darci l’impressione che la forte personalità dell’artista sia infusa nella sua opera.

Sesshu_-_Haboku-Sansui

Sesshu Toyo, Paesaggio a inchiostro spezzato, 1495, rotolo verticale, inchiostro su carta, Tokyo

Altra opera più tarda e di estrema raffinatezza è Paesaggio in inchiostro spezzato.
Secondo la tradizione zen, il dipinto fu creato e donato da Sesshū al suo allievo Sōen, arrivato dal tempio Engakuji di Kamakura, come una sorta di attestato per la conclusione degli studi che lo confermava artista indipendente.
In quest’opera il pittore usa magistralmente la tecnica haboku, inchiostro spezzato, che richiedeva un’estrema velocità d’esecuzione perché occorre stendere le superfici grigie di inchiostro diluito e subito dopo, prima che si siano seccate, “spezzarle” con linee o macchie d’inchiostro nero più denso.

 

Pur non essendo un’opera legata all’ambiente religioso, il dipinto dà l’impressione di una realizzazione subitanea di carattere spirituale ed emotiva.

Indubbiamente Sesshū fu un grandissimo maestro ed esercitò un ruolo chiave nella storia dell’arte giapponese. Egli ebbe un gran numero di discepoli diretti, alcuni dei quali a loro volta fondarono nuove scuole; la sua esistenza servì ad emancipare l’arte e l’artista da vincoli contingenti per innalzare il tutto ad un livello superiore di libertà; contribuì alla diffusione della civiltà cinese ed allo sviluppo culturale del Giappone; riuscì ad essere contemporaneamente uomo dinamico e determinato ed artista geniale e pieno di talento, versatile ed esperto di molte diverse tecniche.

Scritto da Max

Vincenzo Ragusa e la rappresentazione del volto in Giappone

Come tutti voi saprete, spero, grazie anche ai mille eventi culturali in programma e pubblicizzati  in ogni dove (di cui potrete annotare e prendere visione qui: http://www.it.emb-japan.go.jp/150/pdf/programma_150.pdf), il 2016 è l’anno in cui ricorre il centocinquantesimo anniversario del Trattato di amicizia e di commercio tra Italia e Giappone. Si tratta di un anno estremamente importante, dal mio punto di vista, perché sancisce un forte e consolidato rapporto di amicizia, che dura tutt’ora, nonostante le difficoltà incontrate e patite durante le guerre.
E come potevo io, non parlare di tale evento e dedicare un articolo?

Prima di addentrarci con l’argomento principale, incentrato sulla figura di Vincenzo Ragusa, è doveroso fare un breve sunto sul contesto storico del Giappone di fine Ottocento: era il 1853 quando il commodoro Mattew Perry guidò una spedizione di quattro navi da guerra nella baia di Edo (antica Tokyo), per stabilire un rapporto commerciale tra gli Stati Uniti e il Giappone. In questo modo mirava a favorire l’apertura del Paese che fino a quel momento aveva optato per un rigido isolazionismo, il cosiddetto periodo sakoku (letteralmente “paese incatenato”). Sei anni dopo l’arrivo del commodoro americano il porto di Yokohama si apriva finalmente alle potenze straniere attraverso il trattato di amicizia e commercio.
Con l’apertura dei porti, il Giappone si è visto introdurre nuove tecnologie e scienze (come ad esempio la fotografia) che lo portarono ad una rivoluzione e modernizzazione culturale senza precedenti.
Anche l’Italia ha contribuito a tale modernizzazione culturale in particolare in campo artistico. Personaggi come Edoardo Chissone (incisore), Giovanni Vincenzo Cappelletti (architetto), Antonio Fontanesi (pittore) e Vincenzo Ragusa (scultore), alla fine del XIX secolo hanno introdotto in Giappone, con l’insegnamento e la pratica, lo spirito e le tecniche dell’arte occidentale.

Vincenzo Ragusa si trasferì in Giappone tra il 1876 e il 1882 in quanto vincitore di un concorso per insegnare presso la Kobu Bijutsu Gakko (Scuola Tecnica di Belle Arti), in cui lavorarono come docenti anche Cappelletti e Fontanesi.
Vincenzo Ragusa si impiegò presso la Scuola d’Arte Industriale di Yokohama e qui insegnò le tecniche scultoree ed in particolare quelle della tecnica a fusione in bronzo, una pratica scultorea fino a quei tempi non ancora sperimentata in Giappone.
Il contributo di Ragusa in Giappone fu infatti entusiasmante e fondamentale per lo sviluppo di questa particolare tecnica scultorea, per la quale realizzò numerose opere, che oggi si conservano presso il Museo Nazionale di Tokyo ed il Museo della Tokyo University of the Arts (Tokyo Geijutsu Daigaku).

FotoJet CollageUn aspetto innovativo introdotto da Vincenzo Ragusa in Giappone fu la rappresentazione del volto umano. Numerose le sculture in ceramica ed in bronzo che raffigurano volti umani di persone comuni: giovane donna  giapponese, l’attore giapponese, la donna anziana, la moglie, la figlia, e molti altri ancora (come si evince dalle immagini qui a lato).
Potrà sembrare alquanto strano ad un contesto culturale occidentale questa particolarità, ma nella rappresentazione artistica giapponese la raffigurazione di ritratti femminili o maschili non era di consuetudine.
Infatti i giapponesi provavano molto imbarazzo per il realismo tipico dell’arte occidentale.

Ragusa 7

Vincenzo Ragusa, Tama Kiyohara, 1878-’79

Il primo di numerosi ritratti di gente comune è il busto, in bronzo, della futura moglie Tama Kiyohara che realizzò tra il 1878 ed il 1879.
Nel 1879 fu anche ricevuto dall’Imperatore Meiji per il quale realizzò diverse opere ed anche un ritratto attualmente conservato a Kōkyo (Residenza Imperiale).
Tuttavia in Giappone l’opera di Ragusa così come quella di Fontanesi fu molto valorizzata e diffusa soprattutto dal pittore Seiki Kuroda.
In seguito alla partenza di Vincenzo Ragusa nel 1882, non dipendente dalla volontà dello scultore siciliano, ma a causa della chiusura della scuola per motivi finanziari, l’influenza della tradizione artistica italiana andò diminuendo a poco a poco e gli artisti giapponesi iniziarono a cercare nuove fonti d’ispirazione per le loro creazioni.

Giunto a Palermo, sulla scia anche delle concrete esperienze di William Morris in Inghilterra, Ragusa, aveva istituito una Scuola Superiore d’Arte Applicata per la  conoscenza e la diffusione delle tecniche artistiche orientali.
È molto probabile che proprio per finanziare questa scuola Ragusa decise di vendere al Museo Etnografico Pigorini di Roma la sua grande collezione di opere artistiche ed oggetti orientali.

Sia Fontanesi che Ragusa sono stati sempre considerati dalla letteratura artistica giapponese due artisti molto famosi che hanno contribuito alla creazione dell’arte moderna nipponica.

Spero in futuro che ci possano essere più iniziative e scambi culturali, come quelli organizzati per tale ricorrenza, perché sono molto interessanti e ci avvicinano a una cultura nuova e lontana, arricchendo il nostro animo.

Scritto da: Max