In questo articolo vi parlerò del Futurismo, la prima e più consapevole avanguardia artistica in Italia. Il movimento nacque a Parigi dal genio del poeta e scrittore italiano Filippo Tommaso Marinetti per poi espandersi in tutta Europa.
Il Futurismo e più in generale tutte le avanguardie esplose a livello europeo all’inizio del ‘900, sono movimenti artistici che intendono rompere definitivamente i ponti con la tradizione. Alcuni di essi giungono a rifiutare l’arte stessa in quanto istituzione, arrivando addirittura al rovesciamento parodico della funzionalità quotidiana. Così Marcel Duchamp, uno degli esponenti del dadaismo, propone nel 1917 una scultura intitolata “Fontana” che è in realtà costituita da un orinatoio capovolto [vedi immagine sotto].
Senza arrivare all’irrisione dadaista, la pittura volutamente deformata di un Picasso, e in generale del cubismo, rompe in modo definitivo il legame con la prospettiva di tipo rinascimentale, così come sarà per l’espressionismo e il surrealismo.
E’ da notare infine che a Parigi, centro principale di tutte le avanguardie, operavano a inizio secolo numerosi letterati che incominciavano ad intersecare scrittura e grafica con sperimentazioni di poesia visiva come nel caso di Guillaume Apollinaire con i suoi Calligrammi.
Il Poeta Apollinaire fu tra i primi sostenitori del Futurismo che venne lanciato da Marinetti con Manifesti provocatori nel 1909, a cui subito si affiancarono artisti e musicisti. Si tratta di un’avanguardia dai tratti fortemente aggressivi e tecnologici, che ebbe successo legandosi spesso a movimenti politici aggressivi o rivoluzionari, come il fascismo o il comunismo.
Il primo Manifesto del Futurismo fu pubblicato il 20 febbraio del 1909 sul giornale parigino “Le Figaro”. In esso Marinetti pose in rilievo alcuni punti essenziali della poetica futuristica: prima di tutto, il rifiuto totale di ogni forma di tradizione, l’accettazione del presente fatto di macchine e di velocità, di forza e di violenza e insieme una spinta verso il futuro in quanto espressione di un movimento incessante e rivoluzionario.
Il primo nucleo di futuristi si formò a Milano nell’abitazione di Filippo Tommaso Marinetti, composto dai pittori e scultori; Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giacomo Balla, Luigi Russolo, Antonio Sant’Elia e Gino Severini.
I temi della pittura futurista sono il mito della velocità, l’abolizione della prospettiva tradizionale e il moltiplicarsi dei punti di vista in una serie di immagini successive e concatenate tra loro, che uniscono lo spazio all’oggetto rappresentato accentuandone così il dinamismo delle forme.
Uno dei pittori di spicco legati al futurismo fu Umberto Boccioni che con il dipinto “La città che sale”, realizzato a Milano a cavallo tra il 1910 e il 1911,sancì definitivamente l’inizio del futurismo pittorico.
Boccioni prese spunto dalla vista di Milano che si vedeva dal balcone della sua casa. Sullo sfondo del dipinto si intravedono palazzi in costruzione in una periferia urbana, con ciminiere e impalcature. Gran parte dello spazio in primo piano è invece occupato da uomini e da cavalli, fusi esasperatamente insieme in uno sforzo dinamico. Boccioni utilizza contrasti cromatici violenti, dipinge con pennellate frammentate che imprimono un forte senso di movimento alla scena
Ciò che mette il quadro perfettamente in linea con lo spirito futurista è l’esaltazione visiva della forza e del movimento, lo spettatore deve essere colpito in modo aggressivo, violento, si deve risvegliare in lui energia e vitalità.
Uno dei miei quadri preferiti di Boccioni è “La risata” opera ambientata in un caffè e che vede la predominanza di una figura femminile nell’atto di ridere. La risata si propaga dando un senso di movimento e ilarità all’opera.
Boccioni ebbe, purtroppo, una vita breve, morì infatti a 33 anni per una caduta da cavallo, imbizzarritosi alla vista di un autocarro.
Chiuderò questo articolo con una citazione di F.T Marinetti che secondo me racchiude il Futurismo e la carica vitale che lo contraddistingue:
“Noi crediamo alla possibilità di un numero incalcolabile di trasformazioni umane e dichiariamo senza sorridere che nella carne dell’uomo dormono delle ali“
“Sono figlio di Tintoretto, come sono figlio di Goya, di Daumier e del Picasso di Guernica, dell’espressionismo e di Dada Berlino […] Ho voluto riepilogare il momento della paura, la paura di ieri e la paura di oggi: questo è il significato del mio messaggio, l’esaltazione della tecnologia, alienante, per la difesa dell’uomo, della sua integrità e di tutta la sua umanità.”
Quest’anno si celebra il decimo anniversario della morte di Emilio Vedova, uno dei più originali e indiscussi protagonisti italiani per quanto riguarda l’arte informale europea. Nato nel 1919 a Venezia, da una famiglia operaia, dimostra, fin dagli anni Trenta, uno spiccato talento che esercita da autodidatta: abilissimo nell’arte del disegno, realizzerà una serie di vedute architettoniche della sua amata città.
Nonostante il suo interesse per l’arte futurista, Vedova, da anti-fascista convinto, fa parte di quella generazione che desidera superare tutte quelle lacune scaturite durante il Ventennio, esercitando un’attività artistica impegnata, fautrice di rinnovamento, che trova le sue radici nella partecipazione attiva alla vita politica e civile e, per questo motivo, deciderà di partecipare alla resistenza tra il 1944 e il 1945.
Emilio Vedova, Il mondo sulle punte, 1945-1946, olio su tela
Già dal 1946, il suo nome figura tra i componenti firmatari di numerosi movimenti artistici italiani del periodo post-bellico: firmerà, a Milano, il manifesto Oltre Guernica e, nello stesso anno, figura tra i componenti di un altro movimento, questa volta veneziano, che è la Nuova Secessione Italiana, che gli permetterà di entrare a contatto (e successivamente di entrare a far parte) con il Fronte Nuovo delle Arti, focina del movimento informale, nella cui arte si mescolano astrazione e realismo. Sotto l’influenza di questo gruppo, parteciperà, per la prima volta, alla Biennale di Venezia, che lo vedrà più volte protagonista.
Nelle opere di questo periodo, Vedova esprime la propria visione soggettiva della realtà, attraverso un linguaggio che tenta di accordare la sua passione futurista con le esperienze dirette che fece dell’espressionismo degli anni ’30. Questo linguaggio interpreta la tela come una dimensione da conquistare, una dimensione in cui si possono compiere riflessioni esistenziali, in cui lo spazio si fa psicologico e drammatico, divenendo il testimone della cultura umana.
Nel 1952, partecipa per la seconda volta alla Biennale di Venezia: in questa occasione, le sue opere non vengono più esposte con quelle del gruppo, ma separatamente in una sala a lui dedicata. Il 1952 è anche l’anno in cui entra a far parte del Gruppo degli Otto, abbracciando così il movimento informale e, suggestionato dall’espressionismo astratto, realizzerà alcuni dei suoi più celebri cicli, come il ciclo della Protesta e il ciclo della Natura.
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Questi due cicli sono un atto di rinuncia politica, in cui l’autore mette da parte il formalismo e la forte geometria che caratterizzava il suo periodo precedente (vedi “Il mondo sulle punte” del 1946) e da libero sfogo ai suoi gesti pittorici esplosivi, con pennellate di colore che creano dinamismo e articolazione spaziale. La sua è una gestualità potente e sensuale, ma spesso aggressiva. La tela, viene vista da Vedova in maniera quasi “pollockiana”, ossia estensione del suo corpo, del suo gesto, ed è attraversata non solo dai colori bianco e nero, ma al suo interno porta i colori della sua Venezia, come il giallo e il rosso.
Vedova arriverà a dire:
“Alla fine degli anni ’50, passo da una crisi, mi ribello contro la geometria, il rigore dei miei quadri e cerco di far vibrare il mio lavoro in una maggiore spontaneità. Ora non mi preoccuperò più di tagliare profili netti, angolature esatte di luce e ombra, ma del mio intimo, da cui scaturiranno luce e ombra.”
L’epoca degli anni ’50 e ’60 è la più conosciuta delle opere di Vedova, poiché sono anni di grande sperimentazione: nel 1961 realizzerà, per il teatro La Fenice, le scenografie e i costumi per l’opera Intolleranza-60 di Luigi Nono (con la quale collaborerà anche nel 1984 per il Prometeo), ma vedranno la luce anche i primi Plurimi, opere materiche appoggiate a supporti vaganti che invadono lo spazio e il pavimento. Di questo ciclo, che chiamerà appunto Plurimi, Vedova realizzerà prima quelli veneziani, poi quelli berlinesi, tra cui il set dell’Absurdes Berliner Tabebuch del 1964.
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Negli ani ’70, Vedova vive un periodo di riflessione, forse anche a causa di alcune difficoltà di natura fisica. Le sue opere, in questo periodo, si connotano di una diversa tipologia tecnica: siamo ancora in presenza di dipinti Plurimi, ma stavolta, non sono più espressione della pittura e del suo gesto, ma si tratta di una pittura contenuta entro binari di acciaio, su cui possono scorrere forme in movimento (la moglie, Annabianca, li definirà, nella biografia dedicata al marito, come “collage in movimento”). Quindi, queste sono forme che si possono muovere e che hanno una valenza materica.
Risalente anch’esso agli ani ’70, è un altro ciclo poco conosciuto che prende il nome di Carnevali, ciclo che venne mostrato un’unica volta durante la vita dell’artista ad una mostra a Rivoli. Questo tema, legato alla sua Venezia e pieno di ambiguità, venne visto da pochi amici e collaboratori, tra cui l’amico filosofo Massimo Cacciari, che scriverà il catalogo per la nuova mostra di Rivoli, tenuta nel 1998.
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Negli anni ’80, Vedova ricomincia a sperimentare e a usare il colore su grandi formati, che lui chiamerà teleri. Nel 1981, compirà un viaggio in America Latina: già nel 1954 aveva potuto ammirare le bellezze ma anche la difficile realtà del Brasile, ma in questo caso, rimane colpito dalle meraviglie che il Messico ha da offrigli, tant’è che impressionato dai muralisti messicani, Vedova ricomincerà a usare il colore nelle sue grandi tele.
Ritornato da questo viaggio, non aggiungerà solamente questa novità, ma deciderà di provare un nuovo formato, più spettacolare: il cerchio. Nel ciclo Dei dischi, dei tondi e degli Oltre, il perimetro del cerchio e la superficie decorata con accesi contrasti tra il bianco e il nero, e le violente pennellate di rosso, evocano un’instabilità spazio-temporale della vira umana.
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L’attività artistica di Emilio Vedova finisce pochi giorni prima che lui morisse.
Quando era ancora in vita, si era già pensato ad una mostra postuma, le cui tracce si ritrovano in una serie di lettere scritte dall’artista a Palma Bucarelli, ritrovate solo molto più tardi ma datate 1964, periodo in cui Vedova si trovava a Berlino. Questa mostra venne poi pensata in collaborazione con l’artista proprio pochi giorni prima che lui morisse, nel 2006. Oggi, a ricordo della sua intensa produzione e della sua libertà creativa, opera la fondazione Emilio e Annabianca Vedova, che vi invito a visitare http://www.fondazionevedova.org/ .
In conclusione, a dieci anni dalla sua scomparsa, Emilio Vedova va ricordato poiché dette al segno e al gesto la loro massima libertà, impegnandosi in una battaglia di impegno civile e politico; va ricordato perché non solo era ed è un punto fondamentale di riferimento per gli artisti italiani, ma anche internazionali, soprattutto per la Germania: tutti gli artisti che sono entrati a far parte del neo-espressionismo tedesco hanno un debito di riconoscenza nei suoi confronti e nei confronti delle sue opere, ma la cosa più importante di questo grande artista era la sua grande voglia, quasi violenta, di fare arte.
Articolo scritto e pubblicato la prima volta il 27 marzo 2016
In questo primo articolo ho deciso di parlare di una delle mie passioni, l’architettura e, da cosa potevo partire se non dall’ultimo, in ordine di tempo, degli stili considerati “internazionali” in campo architettonico?
Sappiamo che la nascita del fenomeno decostruttivista avviene a New York, ad una mostra organizzata da Philip Johnson, sul finire degli anni Ottanta del XX secolo…ma cos’è il decostruttivismo? Si può dire che nasce come reazione al movimento post-moderno e si basa sul rifiuto totale della purezza formale e della geometria euclidea e, quindi, sulla totale mancanza di tutti quegli elementi e di quelle strutture considerate, fino a quel momento, parte integrante di quest’arte. Si disegnano, allora, edifici dove il “caos” fa da padrone, dove le strutture sembrano sempre instabili, tagliate, scomposte e disarticolate, dove gli spazi si compenetrano e i materiali si torgono e si piegano al loro massimo, dando appunto l’aspetto di qualcosa che possa crollare da un momento all’altro. Sono architetture fantastiche dove l’ordine e il disordine convivono. Per permettere la massima plasticità dei volumi, sono necessari tutti quei materiali considerati high tech e tecnologicamente avanzati, come il vetro, il cemento armato e l’acciaio. Esiste però un filone comune a tutti questi esponenti: prima di tutto, la teoria decostruttivista del francese Jacques Derrida e, poi, le ricerche condotte dagli architetti russi negli anni Venti del XX secolo, che furono i primi a rinunciare all’idea di equilibrio e di unità che stavano alla base della composizione classica. Questo fu il precedente storico che gli architetti decostruttivisti come Zaha Hadid, Frank O. Gehry, Rem Koolhass, Daniel Libeskind e Peter Eisenman si trovarono ad abbracciare e ad esasperare. Tra queste archi-star, Gehry è forse il maggiore fra gli architetti decostruttivisti anche se, non lo sentirete mai ammetterlo pubblicamente.
Vediamo ora alcuni famosi esempi di questa architettura “contorta”!
Frank O. Gehry, Casa danzante, Praga, 1994-1996
La Casa Danzante, in ceco Tančící dům, venne progettata dall’architetto Milunic, in collaborazione con Frank O. Gehry, sul lungofiume di Praga, in una zona che venne distrutta durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Originariamente chiamato Fred and Ginger, l’edificio ricorda vagamente una coppia di ballerini, assimilati a Fred Astaire e Ginger Rogers. Anche se lo stile costruttivo riprende tutti quelli presenti per la maggiore nella capitale dello stato ceco, quali il Neobarocco, il Neogotico e l’Art Noveau, l’edificio creò subito delle controversie per la sua bizzarra originalità.
Zaha Hadid, Vitra Fire Station, Weil am Rhein, 1990-1993
Situata ai margini del campus della Vitra, questa caserma dei pompieri segna la zona con la sua forte identità. La Hadid ha dichiarato di voler rappresentare, con questi muri che sembrano scivolare gli uni sugli altri, lo stato di allarme e di tensione che può esplodere in movimento in caso di emergenza. Interamente realizzato in cemento armato, l’edificio è privo di qualsiasi forma di decorazione, delineando, così, un linguaggio asciutto volto a esaltare lo spazio e la sua dinamicità.
Daniel Libeskind, Imperial War Museum North, Manchester, 2002
La sede del museo della guerra venne progettato da Libeskind con una complessa geometria di piani e di superfici inclinate per creare, nel visitatore, una sensazione di disorientamento, simile allo stato che si prova durante un bombardamento. La struttura dell’edificio, che prende a modello (citando lo stesso Libeskind) il mondo intero, si compone di tre parti (la air shard, la earth shard e la water shard) e alludono alla guerra su terra, mare e in cielo.
Peter Eisenman, Denkmal fur die ermordeten Juden Europas, Berlino, 2003-2005
Il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, viene progettato dall’architetto Eisenman per commemorale tutte le vittime della Shoah. Situato dove originariamente si trovava il palazzo di proprietà di Goebbels, consiste in una superficie vastissima occupata da stele di calcestruzzo di colore grigio scuro, poggianti su un fondo stradale inclinato e disposte secondo una griglia ortogonale. Secondo l’idea di Eisenman, le stele sono realizzate per disorientare e creare, in chi le percorre, una sensazione di solitudine e impotenza.
Rem Koolhaas, CCTV Headquarters, Pechino, 2004-2008
La sede della China Central Television non è un grattacielo tradizionale, ma un anello continuo formato da sei sezioni orizzontali e verticali, con il centro aperto. La parte superiore è formata da due grandi L rovesciate, unite a creare un angolo retto. La costruzione di quest’edificio è considerata una sfida strutturale, sia per la forma sia perché sorge in una zona sismica.
In conclusione, con questi esempi, ho voluto mostrarvi che, architetti come Gehry o Hadid, vogliono mostrare una percezione diversa, quasi “disturbata”, in una dimensione che non è più solo architettura, ma delle volte anche scultura, dove i linguaggi si influenzano e si contaminano in una nuova sensibilità artistica che produce forme nello spazio.
È interessante notare come del Modernismo ci si concentri principalmente sull’architettura. Il Modernismo è anche altro come ad esempio l’arte grafica (riviste, manifesti, cartelloni pubblicitari ecc.), il design industriale (sedie, mobili, incisioni, vasi ecc.), la pittura e così via. In questo articolo parlerò del Modernismo italiano concentrandomi sulla figura di Galileo Chini, un artista che come noterete subito ha forti richiami all’arte di Klimt.
Tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e la Prima Guerra mondiale, l’Europa fu interessata da correnti artistiche stilisticamente coerenti, estese a diversi ambiti di produzione e capaci di interpretare il progresso tecnologico della nuova società industriale. Esse compongono genericamente il movimento detto Modernismo. Con caratteri simili all’arte simbolista, ma più esuberanti e inclini alla ricerca dell’eleganza, il Modernismo espresse le aspirazioni della società borghese della Belle Époque.
Nato in Gran Bretagna come stile decorativo, legato al crescente uso del ferro nei padiglioni espositivi ed alla diffusione dell’arte grafica, prese il nome di Art Nouveau in Belgio e in Francia, Modern Style in Inghilterra, Sezessionstijl in Austria e Boemia, Jugendstijl in Germania, stile Liberty o Floreale in Italia. Caratteri autonomi ebbe il Modernismo in Catalogna, regione nord-orientale della Spagna.
Come si può notare da queste differenti denominazioni, l’arte modernista volle comunque sottolineare il proprio distacco dal passato e dalla tradizione.
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Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo si rinnovò in Italia, sull’onda delle esperienze europee, l’interesse verso le aree termali. Queste rappresentavano i nuovi modelli di benessere della classe borghese, perché facevano coincidere i luoghi di cura e per lo svago.
Particolare dello scalone del Casinò di San Pellegrino, presso Bergamo, 1906
Nuovi stabilimenti termali si affiancarono a quelli vecchi, delineando l’idea della città come luogo del piacere, il cui emblema divenne il Kursaal, centro di cura e di ritrovo, dotato di caffè-concerto e sale da gioco.
Il disegno urbanistico raccordava tale edificio con
altri servizi: alberghi, parchi, attrezzature per il tempo libero, i campi da gioco e la città. Con il passare degli anni, dunque, il complesso termale divenne la città stessa, la ville d’eaux (la città delle acque). In Italia San Pellegrino, Recoaro, Salsomaggiore, Montecatini e Acqui, furono soggette a profonde revisioni urbanistiche.
Lo stile architettonico e decorativo, coerente a tale scenario di benessere e buon gusto, non poteva che essere il Liberty, con le decorazioni esuberanti, ma aggraziate, preferito allo stile neoclassico. I saloni venivano decorati a stucco, o ridipinti con affreschi a tema mitologico o naturalistico.
San Pellegrino Terme, in Lombardia, è il caso più significativo di città d’acqua omogeneamente costruita in stile liberty.
Nell’ambito estetizzante e raffinato dei complessi termali si sviluppa l’opera del pittore fiorentino Galileo Chini. Attento alle esperienze europee, egli è conosciuto per le grandi decorazioni murali, realizzate sopratutto in sedi espositive (come la Biennale di Venezia) e nei saloni delle terme di Montecatini e Salsomaggiore.
Le sue opere figurative sono caratterizzate dall’accordo tra le figure e lo spazio architettonico in cui sono inserite. La sua maturità toccò il vertice nella sperimentazione di tecniche e ambiti espressivi diversi, quali la ceramica e la grafica, la scenografia e la decorazione.
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Ma ora concentriamoci sulle terme di Montecatini perché al loro interno si trova un’opera significativa di Galileo Chini che lo lega particolarmente allo stile dell’arte di Klimt, opera che poi trovo particolarmente piacevole.
All’interno delle terme di Montecatini va sottolineato tuttavia la presenza di numerose opere di Galileo Chini, prevalentemente ceramiche, vetrate e pavimenti, ecco qualche immagine:
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Nel 1914, ritornato da un viaggio in Siam, realizza diciotto pannelli per la sala dedicata all’opera dello scultore slavo Ivan Mestrovic alla Biennale di Venezia.
Ed è in questo periodo che il suo stile è più vicino all’arte di Klimt, come mostrano anche La primavera che perennemente si rinnova, uno dei pannelli dipinti per Montecatini nello stesso 1914, in cui piega il simbolismo dell’austriaco a un uso pienamente decorativo, irrigidendone gli stilemi e amplificandone fino al parossismo l’effetto ornamentale.
Pannello con decorazioni floreali, dove si sovrappongono in modo scalare fanciulle con i pepli.
Le diciotto opere, di quattro metri di altezza, trattano il tema della Primavera e della Rinascita della vita attraverso la progressione di quattro momenti figurativi: La primavera classica, L’incantesimo dell’amore e La Primavera della vita, La Primavera delle selve e La Primavera che perennemente si rinnova. Le opere furono realizzate al rientro dell’artista da Bangkok, dove aveva portato a termine la decorazione del Palazzo del Trono per il re Chulalongkorn. Galileo Chini affronta l’incarico consegnatogli dalla segreteria della Biennale solo un mese prima dell’inaugurazione della rassegna veneziana, riuscendo in poco tempo a realizzare una delle sue decorazioni più riuscite.
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L’autore spiegando il senso della sua opera, dice di averla eseguita traendo ispirazione dalla primavera a Venezia, quando la città accoglie gli artisti di tutto il mondo per questo evento e alla primavera spirituale che eternamente si ripropone.
Per chi volesse approfondire l’argomento segnalo questo sito:
Nel lungo periodo di attività di questo blog abbiamo spesso affrontato diverse tematiche e diverse tipologie di arte: da occidente a oriente, ci siamo soffermati sulla scultura, abbiamo analizzato l’architettura, approfondito la pittura e l’incisione… ma l’oreficeria? Perché non dedicare un articolo alla grande oreficeria della corte Zarista e, in particolare, alle uova Carl Fabergé?
Era 1885 quando il nuovo gioielliere imperiale, Fabergé, ricevette dallo Zar Alessandro III di Russia l’incarico di realizzare, come regalo di Pasqua per la moglie Maria, un uovo speciale. Quell’uovo però non era di cioccolato, bensì decorato con gioielli e pietre preziose, costruito con una maestria davvero impressionante.
Per conoscere pienamente questi capolavori, dobbiamo prima soffermarci sulle usanze ortodosse relative alla celebrazione della Pasqua.
Carl Fabergé, Primo uovo con gallina, 1885
La Pasqua è la più importante celebrazione della fede ortodossa in Russia: terminate le funzioni religiose, le famiglie si riuniscono e portano in dono uova decorate che simbolicamente alludono alla vita e alla speranza.
Durante l’Ottocento, gli aristocratici di Mosca e San Pietroburgo celebravano la festività regalandosi oggetti preziosi e, proprio in questo contesto, fu lo Zar a primeggiare: Alessandro III, infatti, decise di sorprendere la Zarina con un gioiello mai visto, un uovo dorato completamente rivestito di smalto bianco opaco che ricordava un vero e proprio uovo di gallina.
La mattina di Pasqua, Fabergé consegnò a palazzo questo regalo e l’imperatrice rimase molto stupita quando scoprì che, al suo interno, era nascosto un tuorlo dorato che, come una matrioska, celava una piccola sorpresa: una gallina d’oro.
Il dono fu così apprezzato che all’orafo fu richiesto di crearne uno ogni anno, ognuno ispirato agli eventi della madrepatria e alla vita famigliare del casato Romanov.
Carl Fabergé, Uovo di Cristallo con miniature girevoli, 1896
La creazione delle uova richiedeva un anno di duro lavoro: tutto partiva dalla progettazione del pezzo, ispirato ai momenti memorabili del casato imperiale e, per richiesta specifica dello Zar, ogni uovo doveva svelare, al suo interno, una o più sorprese.
Il risultato finale era sempre fantastico e artisticamente superbo, tanto che al Salone Mondiale di Parigi del 1900, le uova imperiali vennero acclamate diffondendo la fama di Fabergé in tutta Europa, promuovendo le sue opere in tutto il continente.
Nessuno dei membri della famiglia reale, fino al giorno di Pasqua, sapeva come sarebbe stato l’uovo e che sorpresa avrebbe contenuto.
Dopo la morte del padre, il nuovo Zar Nicola II chiese ogni anno a Fabergé un uovo per la moglie e uno per la madre.
Ancora una volta uscirono dei capolavori, come l’Uovo di Cristallo, in ricordo della grande storia d’amore tra lo Zar e la Zarina oppure, quello per festeggiare la nascita della ferrovia Transiberiana o anche l’enorme uovo sulla storia del Cremlino, che raccontava la lotta dell’esercito russo contro Napoleone.
Fra il 1885 e il 1917 (anno della caduta dei Romanov), furono realizzate 59 uova: 52 commissionate dagli imperatori mentre, le restanti 7, commissionate dal nobiluomo Alexander Kelch per regalarle alla moglie Barbara.
Ora proviamo a soffermarci su tre importanti esempi: il Memoria di Azov, l’Uovo di Pietro il Grande e l’Uovo con gallo.
Uovo Memoria di Azov
L’uovo del Memoria di Azov venne fabbricato a San Pietroburgo nel 1891. Regalato alla Zarina Maria, questo uovo è realizzato in eliotropio (una pietra verde scuro), oro, diamanti, rubini, platino, acquamarina e velluto.
Il guscio è ricavato da un blocco unico di eliotropio screziato di rosso e blu, a cui è sovrapposto un motivo a volute dorato decorato con brillanti e fiori d’oro lavorati a sbalzo, in pieno stile rococò. Sui bordi delle due metà è presente un’ampia fascia d’oro scanalata, con un rubino a goccia e diamanti che costituiscono la chiusura.
Corazzato Pamiat Azova
La sorpresa contenuta all’interno commemora il viaggio della Pamiat Azova in Estremo Oriente: è una fedele riproduzione dell’incrociatore corazzato della Marina militare russa, realizzato in oro rosso e giallo, platino e piccoli diamanti per i finestrini, mentre il nome Azov compare inciso sulla poppa. La nave è poi posta su una lastra di acquamarina che rappresenta il mare.
Un altro eccezionale esempio della maestria orafa di Fabergé è l’Uovo di Pietro il Grande, un dono che Nicolò II fece alla moglie Aleksandra nel 1903.
Uovo di Pietro il Grande, 1903
Quest’uovo celebra il duecentesimo anniversario della fondazione di San Pietroburgo, avvenuta nel 1703. Decorato in stile rococò, è fatto d’oro rosso, verde e giallo, platino, diamanti, smalto, rubini e zaffiri.
Il corpo dell’uovo è coperto da foglie di alloro, rose e giunchi, a simboleggiare l’acqua come fonte della vita. Sulla parte superiore è presente una corona smaltata che circonda il monogramma di Nicola II, mentre la parte inferiore è decorata dall’aquila imperiale a due teste.
Il guscio presenta, inoltre, quattro miniature ad acquarello, che rappresentano il passato e il presente di San Pietroburgo, con il Palazzo d’Inverno (ossia la residenza ufficiale degli Zar) e le rive del fiume Neva (costruire da Pietro il Grande).
Sono presenti anche dei drappeggi in cui, oltre a comparire le due date fondamentali (1703 e 1903), si trovano le iscrizioni all’imperatore Pietro e a Nicola II.
Alzando il coperchio dell’uovo, si può notare un meccanismo che solleva la sorpresa: la miniatura in bronzo del monumento a Pietro il Grande sulla Neva, che poggia su una base di zaffiro, circondata da una ringhiera d’oro cesellato.
La sorpresa è un chiaro riferimento al poema scritto da PuŠkin, il Cavaliere di Bronzo, secondo il quale nessun nemico conquisterà San Pietroburgo fino a quando il “cavaliere di bronzo” (ossia la statua dell’imperatore) resterà in mezzo alla città.
L’ultimo uovo, l’Uovo con gallo, venne invece commissionato, nel 1904, da Alexander Kelch per la moglie Barbara. È l’ultimo delle sette uova che, ogni anno dal 1898 al 1904, vennero ordinate dal nobiluomo su ispirazione delle uova imperiali.
Uovo con gallo, 1904
Ispirato all’imperiale Uovo con galletto del 1885, il gioiello è in oro, argento, perle, diamanti e smalto blu reale.
Si tratta di un orologio, con il guscio coperto di smalto traslucido e decorato con festoni d’oro verde legati con nastri d’oro rosso, mentre una fila di piccole perle divide in due l’uovo lungo l’asse mediano e contorna il quadrante rotondo.
Sul retro dell’uovo, uno sportello consente di accedere al complesso meccanismo dell’orologio.
L’uovo è inoltre sostenuto da un piede conico che appoggia su un piedistallo, ornato da festoni d’alloro e foglie di acanto.
Sulla parte superiore dell’uovo, una griglia traforata circolare nasconde la sorpresa: un gallo d’oro smaltato e tempestato di diamanti che canta allo scoccare delle ore.
La tradizione di regalare delle uova è giunta fino a noi e, ogni anno, grandi e piccini corrono a comprare il proprio uovo di Pasqua che racchiude una sorpresa; certo, il nostro non è in oro e diamanti, ma direi che il cioccolato ci rende ugualmente felici.
L’articolo di oggi è dedicato ad uno dei complessi monastici più importanti di tutta la Lombardia, per l’appunto la Certosa di Pavia. In questa prima parte mi soffermerò soprattutto sull’architettura, sulla struttura che caratterizza il monastero dedicando, successivamente, un altro articolo a tutti i cicli pittorici che lo caratterizzano.
Prima di tutto, però, dobbiamo conoscere almeno un minimo la sua storia.
Veduta aerea del complesso monastico della Certosa di Pavia
Dalla Historia di Milano, scritta da Bernardino Corio, sappiamo che nel 1390 Caterina Visconti, moglie di Gian Galeazzo, lasciò nel proprio testamento l’ordine che “in una villa del Pavese si dovesse fabbricare un monastero dei Certosini e, in caso di parto morendo, pregare il marito di adempiere a tali ordinazioni“. Già nel 1394 Gian Galeazzo entrava in contatto con i Padri Certosini senesi, sollecitandoli ad inviare rappresentanti per collaborare, insieme agli architetti, all’elaborazione della nuova tipologia monastica, intitolata a Santa Maria delle Grazie. L’incarico del progetto e della sua realizzazione venne affidato a Bernardo da Venezia, già attivo nel cantiere della fabbrica del Duomo di Milano, e con lui chiamò a collaborare Cristoforo da Conigo e Giacomo da Campione anche se, dei tre, solo Cristoforo rimase a lungo a seguire lo sviluppo dei lavori.
Il 27 agosto 1396 fu celebrata la cerimonia della posa della prima pietra e i lavori procedettero alacremente fino al 1402, anno della morte del duca; da quel momento in poi la fabbrica subì un rallentamento prima sotto il ducato del figlio, Giovanni Maria e, poi, dei suoi successori. In questi anni si ricorda la costruzione del vestibolo, poi comunemente denominato “interno” e la costruzione di un ambiente, con funzione di portineria, dove veniva distribuito il pane ai poveri.
Disegno della facciata (XVII sec.)
Durante il periodo della Repubblica Ambrosiana, la Certosa entrò a far parte della contea di Pavia (precedentemente era compresa nel dominio milanese), della quale fu investito Francesco Sforza. Sotto la sua reggenza i lavori rallentarono ulteriormente, probabilmente a causa dei contrasti fra Cristoforo da Conigo e il giovane Solari.
Con la congiura del 1480, Ludovico detto il Moro usurpò il diritto di successione, divenendo reggente del ducato. Egli si mostrò molto interessato al cantiere della Certosa, ispezionandolo egli stesso e, decidendo che le provviste di marmo utilizzate per la fabbrica del Duomo venissero impiegate anche per la Certosa. Per lo stesso motivo, decise di privilegiarla anche dal punto di vista pittorico, commissionando lavori a Lippi e Perugino.
Anche il XVII secolo è caratterizzato da una fervida operosità, sia per la realizzazione di molte pale d’altare sia per la presenza, nel cantiere, di numerosi scultori.
Sia il Settecento, con la guerra di successione spagnola, sia i trafugamenti durante le battaglie napoleoniche comportarono numerosi danni vandalici alla struttura e, con la soppressione dell’ordine cistercense, la basilica venne addirittura profanata. Solo nel 1930, con la stipulazione dei Patti Lateranensi, i Cistercensi fecero nuovamente ritorno nella Certosa, per essere poi sostituiti dai Certosini che tutt’ora vi sono ritirati in preghiera.
Ora, invece, concentriamoci sulla struttura.
La certosa di Pavia ha due vestiboli contigui costruiti nel XV secolo e, all’esterno del primo, si può notare lo stemma visconteo- sforzesco sorretto da angeli e il monogramma GRA CAR, ossia Gratiarum Carthusia. Superati i due vestiboli, si giunge nel grandioso piazzale rettangolare antistante la chiesa.
Francesco M. Richini, Palazzo Ducale, 1620- 1625, Certosa di Pavia
A destra sorge il Palazzo Ducale, residenza estiva dei duchi Visconti e Sforza: la facciata è in sobrio ed elegante barocco e l’edificio ospita, al suo interno la gipsoteca con la raccolta dei gessi delle sculture della Certosa, la vetrinetta in cui sono esposti il pugnale, la spada e gli speroni di Gian Galeazzo Visconti e una serie di ambienti espositivi per avori, paramenti sacri e una statua bronzea di Cristo, risalente al XVII secolo.
La prima cosa che si nota, appena si entra nella grande piazza, è la monumentale facciata della basilica. Essa consta di un avancorpo rinascimentale- lombardo a sé stante e costituisce uno dei più splendidi monumenti decorativi d’Italia. Per la sua realizzazione si utilizzarono soprattutto marmi provenienti da Candoglia e da Carrara ma anche il serpentino d’Oria e il nero di Saltrio, mentre negli intarsi la preferenza andò al porfido rosso e al verde antico.
Facciata della basilica della Certosa di Pavia
La facciata fu realizzata in due tempi e, di conseguenza, in due stili diversi. Lo slancio verticale della struttura è dato dai sei grandi pilastri che la ornano, mentre l’equilibrio si esprime, in senso orizzontale, nelle cornici e nei due ordini di loggette. Il registro inferiore, ornatissimo di sculture, riflette il clima del rinascimento lombardo; quello superiore, posteriore di un quarantennio, si arricchisce di marmi policromi e di una serie di eleganti loggette. Il progetto più antico, disegnato da Solari, è riscontrabile in un bassorilievo marmoreo nel sottarco a sinistra del portale, nel riquadro che raffigura la consacrazione della chiesa del 1497. Nello zoccolo si possono osservare medaglioni di monarchi e personaggi storici famosi, figure allegoriche e angeli che reggono lo stemma visconteo- sforzesco mentre, la fascia superiore comprende diciotto riquadri con bassorilievi della Vita di Gesù con santi e profeti.
Al centro della facciata si apre il grandioso portale, realizzato tra il 1501 e il 1508. Quattro colonne corinzie di marmo bianco di Carrara sostengono il cornicione formando un elegante protiro rinascimentale.
Benedetto Briosco, Portale della Basilica della Certosa di Pavia
Tra le sculture dello zoccolo si possono riconoscere gli episodi della Vita di San Bruno, fondatore dei Certosini. Nel sottarco a destra di chi guarda, fra coppie di lesene sono rappresentati il Papa che approva la regola dei certosini, in basso Gian Galeazzo che pone la prima pietra della Certosa; nella lesena di destra episodi della Vita di Sant’Ambrogio e, in quella di sinistra, la Visita di Maria a Santa Elisabetta, il Battesimo di Gesù e le scene della Vita del Battista.
Basilica della Certosa di Pavia (interno)
Entrando, la chiesa presenta l’originaria struttura gotica, ispirata al Duomo di Milano, che fu impressa nella pianta da Bernardo da Venezia e Cristoforo da Conigo. L’interno, grandioso e solenne è a croce latina: lo spazio è scandito da tre navate, più ampia quella centrale e minori le due laterali, suddivise in campate e delimitate da volte a crociera costolonate ed esapartite.
Tutto il complesso architettonico risulta di una straordinaria armonia per la luminosità diffusa e per la fantasia delle decorazioni.
Lungo le navate laterali si aprono quattordici cappelle, dodici quadrate e due rettangolari; nel transetto invece, finte lesene a candelabro scandiscono le pareti, in cui sono inserite fasce con decorazioni monocrome e medaglioni con santi in stile bergognonesco. All’incrocio della navata centrale con il transetto si innalza il tiburio al di sotto del quale, originariamente, era collocato l’altare maggiore.
Tra il transetto e il presbiterio si erge, ancora adesso, un tramezzo marmoreo, costruito per separare il coro dei padri da quello dei conversi, secondo le disposizioni della regola certosina.
Chiostro piccolo
Dalla chiesa, attraverso il portale dell’Amedeo, si accede al chiostro piccolo: le cinquanta arcate sono decorate da belle terracotte con busti di angeli, santi, profeti, monaci, tralci di vite e cordoni. Questo è uno dei luoghi più suggestivi della Certosa, grazie al caldo colore del cotto lombardo e al bianco dei pinnacoli della facciata.
Il chiostro piccolo viene considerato di “stile di transizione” poiché, pur conservando i dettami della tradizione gotica, evolve verso forme già tipiche del primo rinascimento lombardo.
Il complesso monastico presenta però un secondo chiostro, il chiostro grande. A pianta rettangolare, presenta 123 arcate in cotto, sostenute da colonne in marmo.
Prospettiva aerea del Chiostro Grande
I lati sue, est e ovest del chiostro ospitano le celle, precisamente 23, che secondo lo storico Beltrami vennero costruite fin dalla prima metà del Quattrocento. Lo storico ci informa che in origine le celle erano collegate da una semplice tettoia, sostenuta da pilastri in muratura; furono poi parzialmente modificate quando venne costruito il porticato nel 1514.
In conclusione, vi lascio questo bellissimo video per illustravi ogni particolare di questo meraviglioso complesso monumentale:
Nel cercare un’immagine da inserire sulla nostra pagina Facebook, che per chi volesse curiosare può cliccare qui https://www.facebook.com/Spunti-sullArte-944998465607782/, mi sono imbattuto in un’opera al quanto affascinante: non tanto per lo stile o il soggetto rappresentato, quanto piuttosto per la tecnica. Una tecnica nuova, innovativa e potente per l’epoca che attrae tutt’oggi le persone. Di cosa sto parlando?
Nel tardo Cinquecento e nel Seicento si affermò la pittura illusionistica, che include tecniche come il sotto in su e la quadratura. Artisti come Giovanni Lanfranco, Pietro da Cortona e, verso la fine del secolo, Giovanni Battista Gaulli e Andrea Pozzo, di cui mi occuperò in questa sessione, lavorarono alla decorazione delle volte di palazzi e di chiese, rivestendole con immagini complesse: grazie ad un’ardita concezione della prospettiva essi evocavano, oltre a grandi scenari architettonici, spazi infiniti.
Con l’espressione quadratura o quadraturismo si indica il genere di pittura del XVI secolo che prevede inserimenti in soffitti, cupole e volte di elementi architettonici dipinti che simulano un effetto di prospettiva architettonica reale, fa parte dell’insieme di tecniche comprese nella pittura illusionistica che si sviluppò a partire dal Rinascimento e che vide il proprio apice nel periodo Barocco.
A differenza del sotto in su e del trompe l’oeil la quadratura è una tecnica principalmente legata alle rappresentazioni di architetture, comprese statue e decorazioni in stucchi.
Gli artisti specializzati di quadrature sono i quadraturisti; essi creano effetti illusionistici di profondità spaziale che si estende oltre il soffitto e le pareti, sfondi destinati ai dipinti di altri artisti.
Questo tipo di pittura veniva eseguita su soffitti piatti o nelle volte dove creava spazi nuovi e continuava l’architettura già esistente e simulava spazi aperti prospettici a partire da un punto di fuga centrale.
Spesso all’interno della quadratura venivano inserite figure anamorfiche, ovvero immagini poste distorte su un piano in modo tale che il soggetto raffigurato fosse riconoscibile solo da determinati punti prospettici.
In Italia la scuola principale di quadraturisti si trova a Bologna, fondata da Girolamo Curti, detto Dentore, pittore italiano esperto nella quadratura prospettica e di decorazione, e da allievi come Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli.
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Il gesuita Andrea Pozzo ha rappresentato un importante riferimento per la pittura tardo barocca, in Italia e nei paesi germanici. Matematico, pittore, scenografo e architetto, scrisse un trattato sulle leggi della prospettiva, il Perspectiva pictorum et architectorum (1693-1702), che sarà il manuale più seguito nel Settecento. Con questa pubblicazione il Pozzo non si limita a scrivere un trattato teorico, ma ha il merito d’insegnare il modo di mettere in prospettiva tutti i disegni di architetture, a uso sia di pittori che di architetti, «l’inganno degli occhi, si può raggiungere solo attraverso una conoscenza e uno studio approfondito della tecnica della prospettiva. È questa l’ambizione del mio libro» (così dichiara Pozzo nella dedica al futuro imperatore asburgico Giuseppe I).
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La prima parte è dedicata ai canoni basilari della materia, la seconda parte ai procedimenti operativi per disegnare in prospettiva cupole, altari, fontane, scale e altri elementi architettonici.
Tuttavia di questo artista poliedrico ci concentreremo della sola pittura illusionista, di cui analizziamo subito qualche opera.
Opera emblematica e forse la più conosciuta è la Gloria di Sant’Ignazio, come potete vedere qui sotto, raffigurato sulla volta della chiesa di Sant’Ignazio a Roma. Le architetture dipinte, innestate su vere finestre, archi e cornici, innalzano in modo illusorio la volta della chiesa fino ad altezze vertiginose, creando un effetto a dir poco stupefacente.
Al fedele sembra che lo spazio esterno, divino, coincida con quello interno, terreno, “congiungendo – scrive Pozzo nel suo trattato – il finto col vero”.
Molteplici figure sono liberamente collocate entro scorci audaci culminanti in quella, ormai lontana, del Santo con una miriade di angeli.
Andrea Pozzo, Gloria di Sant’Ignazio da Loyola, 1691-94, Affresco, Chiesa di Sant’Ignazio, Roma
Sul pavimento, un disco di marmo segna il punto ideale di osservazione. Spostandosi da questo, sembra che tutto l’edificio perda la sua stabilità.
Falsa cupola realizzata da Andrea Pozzo, 1658, chiesa di Sant’Ignazio, Roma
Tuttavia all’interno della chiesa di Sant’Ignazio ci sono altre quadrature interessanti, dello stesso artista, per esempio quella che riguarda la cupola. Si, perché il progetto di questa chiesa prevedeva la realizzazione di una cupola di cui però non mai stata realizzata, forse per motivi economici, e Andrea Pozzo realizzò nel 1658 una finta cupola. Si tratta di una grande tela del diametro di 17 metri dove il quadraturista ha creato l’incredibile illusione prospettica di una cupola che in realtà non esiste. Sul pavimento c’è un disco di marmo che indica il punto esatto da cui osservare il gioco prospettico, come abbiamo visto per l’opera precedente.
Interessante notare come questo filone, chiamiamolo cosi, sia giunto fino a noi con nuove tipologie e supporti, che quindi si allontanano dal classico affresco, guardate ad esempio la street art.
Artisti di strada che in un qualche modo rievocano il passato attraverso la tematica comune dell’illusione della prospettiva, dell’ingannevole, che, come ribadito all’inizio, attrae tutt’oggi le persone. Giusto per rendervi l’idea ecco alcune immagini:
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Per chi volesse approfondire l’argomento lascio qui sotto il link di un saggio tecnico e articolato, estrapolato dalla rivista “geocentro”, sperando possa saziare la vostra voglia di curiosità (http://www.collegio.geometri.ro.it/pdf/2010/7015_010.pdf).
Intorno alla metà del Cinquecento molte città italiane mutano il proprio profilo esterno, circondandosi di poderose cinte fortificate, edificate sia per difendere militarmente il territorio urbanizzato sia per controllare meglio l’esazione daziaria, che costituiva una cospicua fonte di guadagno, sia, infine, per erigere una barriera sanitaria necessaria a isolare gli abitanti per evitare contagi.
Tali imprese vedono all’opera ingegneri specializzati per progettare e dirigere gli altrettanto colossali cantieri, che coinvolgono architetti di norma attivi in campo civile o ecclesiastico.
Scopi prevalentemente militari e difensivi inducono gli stati a fondare presidi fortificati totalmente nuovi, come nel caso di Terra del Sole, voluta da Cosimo I ai confini tra la Toscana e la Romagna pontificia, o di Palmanova, fatta costruire dai veneziani nell’entroterra friulano nel 1593 come città fortezza.
Palmanova, veduta aerea
In questi casi vengono impiantate vere e proprie città ideali, regolari nel profilo quadrangolare o poligonale, percorse da tracciati ortogonali, che oltre a razionalizzare i percorsi danno corpo e forma alle molte teorizzazioni dei trattati urbanistico- militari e rievocano gli impianti dei castra romani poi trasformatisi in città. In altri casi, come a Pontovecchio in Corsica, edificata per volontà dei genovesi, la nuova città ha anche la funzione di colonizzare un territorio ancora spopolato e di avviare il programma di bonifica della costa.
Nell’Italia meridionale, posta sotto il diretto dominio spagnolo, le due capitali, Napoli e Palermo, sono oggetto di importanti opere di riqualificazione urbanistica di antichi tessuti abitativi, dovute sia al forte aumento della popolazione sia alla necessità di rinforzare le difese in funzione antiturca.
Bastiaen Stopendaal, Pianta di Napoli nel XVII secolo
A Napoli, il viceré promuove la risistemazione delle antiche fortezze interne, l’impianto delle mura e fa tracciare nella parte nuova della città una lunga via rettilinea, via Toledo, affiancata da un tracciato viario ortogonale che, inizialmente destinato a ospitare le truppe, è ben presto trasformato in area residenziale, votata a favorire un piano di risanamento e di recupero della sicurezza urbana. Tale zona, ancora oggi denominata dei quartieri spagnoli, contrasta per il suo tracciato regolare con il groviglio medievale della pianta cittadina.
A Palermo, qualche decennio più tardi, i viceré spagnoli provvedono ad ampliare e a irrobustire le mura e di conseguenza anche la città, che viene tagliata da due assi viari rettilinei e perpendicolari che si sovrappongono al reticolo policentrico della città medievale: si tratta dell’antico rettifilo del Cassaro, oggi corso Vittorio Emanuele.
Tra gli episodi di riqualificazione urbanistica cinquecentesca, un caso a parte è costituito dalla realizzazione, a partire dal 1550, dalla Strada maggiore di Genova, poi detta Strada Nova e oggi intitolata a Garibaldi.
Planimetria della Strada Nova a Genova
In una stretta porzione urbana, nel breve volgere di quatto decenni vengono così erette le dimore dei più importanti cittadini che, per secoli, si tramandano il potere. La costruzione della Strada non viene dunque dettata né dalla pressione demografica né dalla necessità di potenziare direttrici di traffico, ma è invece giustificata da esigenze estetiche e dalla volontà di creare un nucleo residenziale elitario ed esclusivo. Il coordinatore dei cantieri fu Bernardino Cantone da Cabio, che conferisce grande unità agli edifici, per lo più impostati su strutture cubiche e sviluppati con grande varietà di soluzioni lungo l’asse verticale.
Un riordino monumentale e scenografico è quello di Venezia, che viene qualificato da edifici di fondamentale importanza civile, commerciale e religiosa come il Palazzo Ducale, la basilica di San Marco e la Loggia dell’Orologio.
Piazza San Marco, Venezia
La sistemazione evidenzia la grande sensibilità di Sansovino che vi coniuga la propria formazione razionale tosco-romana con le preesistenze locali e dimostra la natura universale del linguaggio architettonico fondato sull’antico. Nell’affidargli l’incarico, il governo della Serenissima intende presentare al mondo un centro che riassuma, con chiara e moderna evidenza monumentale, la grandezza e la storia della città. Per risistemare l’area, Sansovino fa costruire ex novo gli edifici della Zecca e della Libreria, progetta le cosiddette Procuratie Nuove e maschera la fronte del basamento gotico del campanile di San Marco con una Loggetta marmorea decorata da rilievi celebrativi.
Loggetta del campanile di San Marco, Venezia
Oltre alla funzione di mitigare lo slancio verticale del campanile, Sansovino affida alla Loggetta il compito di celebrare i fasti e il mito di Venezia. La Loggetta contiene infatti le rappresentazioni della capitale, delle città della terraferma e dei domini marittimi, ribadendo l’importanza dello stato nel suo insieme, non più isolato nel rapporto con l’area orientale del mondo.
La Libreria marciana, destinata ad ospitare la ricchissima biblioteca di codici latini e greci, è concepita come un unico edificio ad andamento orizzontale: l’abbondante decorazione scultorea, le conferisce una caratterizzazione pittorica, che rivela la forte interazione dell’ambiente lagunare con la visione sansoviniana.
In conclusione si può dire che l’aumento della popolazione, necessità militari ed esigenze di decoro guidano, nel Cinquecento, i numerosi interventi di riqualificazione del tessuto urbano che trasformano il volto di molti centri della penisola. I tracciati nelle nuove aree sorte o risistemate in questo periodo presentano tutte una caratteristica regolarità che talora contrasta con il disordine dei precedenti insediamenti di età medievale.
Prima di analizzare l’artista di oggi che, come desumerete dal titolo sarà appunto Parmigianino, vorrei scusarmi con voi lettori per l’assenza di questo periodo: purtroppo, con gli esami universitari da dare, sia io che Max, abbiamo avuto poco tempo da dedicare a noi stessi e a questo blog, ma ora torneremo più carichi di prima, con nuovi articoli e nuove proposte!
Parmigianino, Autoritratto entro uno specchio convesso, 1524, Vienna, Kunsthistoriche Museum
Ora, invece, concentriamoci su uno degli artisti che ha rivoluzionato la pittura italiana del Cinquecento maturo: Girolamo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino.
Nato a Parma nel 1503, Parmigianino completa la propria formazione ed educazione artistica prima presso la propria famiglia (dei documenti ci rivelano essere il figlio del pittore Filippo Mazzola) poi, studiando le opere del Correggio conservate appunto a Parma; la sua formazione, però, comprende anche lo studio delle opere di Dosso Dossi, del Pordenone e infine i dipinti settentrionali di Raffaello.
Dopo un soggiorno romano, avvenuto tra il 1524 e il 1527, il nostro artista matura uno stile classicamente monumentale, caratterizzato da un linguaggio raffinato e innovativo: studiando Michelangelo e Giulio Romano, deciderà quindi di optare per una versione virtuosistica del canone classico di bellezza, evidenziando quei caratteri che lo trasformeranno in uno degli artisti cardine del Manierismo.
Parmigianino, La visione di San Gerolamo, 1526-1527, olio su tavola, Londra, National Gallery
Di questo periodo romano è una pala che, fortunatamente, si è salvata dalle distruzioni del sacco di Roma: la pala della Visione di San Gerolamo.
Commissionata al pittore il 3 gennaio 1526 per la chiesa di San Salvatore Lauro, la pala presenta la Vergine col Bambino sospesa in cielo mentre san Giovanni Battista, in primo piano, è colto nell’atto di indicare all’osservatore la sfolgorante apparizione celeste posta alle sue spalle; un terzo personaggio, steso sull’erba e intento a dormire, può essere considerato il testimone della scena : questo personaggio è appunto San Gerolamo.
Questa pala è ricca di riferimenti ad opere di maestri contemporanei: vengono rielaborati spunti di Raffaello e di Correggio, da cui prese l’idea della visione, come anche il motivo del Bambino grandicello “calato” ai piedi della madre, che riecheggia il tipo della Madonna di Bruges di Michelangelo.
Lo stimolante rapporto con la pittura dei grandi maestri non sfocia mai in una banale imitazione ma, tutti gli spunti, vengono sempre filtrati dalla sua sensibilità, che gli permette di giungere al risultato finale dopo essere passato attraverso ad una lunga fase ideativa, sempre graficamente attestata.
Dopo un soggiorno a Bologna (1527- 1530), Parmigianino ritorna nella città natia, dove realizzerà uno dei suoi lavori più celebri, la Madonna dal collo lungo.
Parmigianino, Madonna dal collo lungo, 1534- 1539, olio su tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi
Eseguita per la cappella di Elena Baiardi Tagliaferri nella chiesa di Santa Maria dei Servi a Parma, questa pala viene collocata nella chiesa ancora incompiuta: sotto un cielo nuvoloso attraversato da bagliori luminosi, una elegante Vergine sta seduta in trono guardando il Bambino dormiente adagiato sulle proprie ginocchia. Sulla sinistra della composizione si accalca un gruppo di angeli apteri (senza ali), che offrono un’urna sulla quale riluceva il riflesso della croce, oggi quasi invisibile, ma nota perché descritta minuziosamente dal Vasari; in lontananza, a destra, ai piedi di un alto colonnato, si allunga la figura di un profeta che distende un rotolo.
Sebbene il contratto di commissione del dipinto prevedesse solamente la Vergine tra i santi Francesco e Gerolamo, l’opera si trasforma progressivamente, attraverso una lunga gestazione grafica, dedita a ricreare artificialmente un ideale di bellezza estrema, fredda ma energica, che risulta irraggiungibile.
Emblematica è la bellezza della Vergine, molto raffinata, che non mostra nessun attributo tradizionale, ma ostenta le sue forme prosperose al di sotto del tessuto che la riveste.
Anche per la Madonna dal collo lungo, Parmigianino guarda a una composizione del Correggio: si tratta di una piccola Madonna col Bambino, dipinta una dozzina di anni prima, in cui compaiono lo stesso gesto della mano destra della Vergine, il colonnato e la figura più piccola di un profeta in secondo piano.
Nelle tavole del Parmigianino dominano una molteplicità di spunti teologici, attinti sia dalla cultura medievale sia da quella contemporanea; così nei suoi dipinti si colgono forti richiami al tema della Passione di Cristo o alla Deposizione. Perfino la colonna e il collo lungo di questa tavola non costituiscono solo spunti formali, ma sono manifestazioni visive delle virtù mariane, alludendo alla “torre d’avorio” spesso riferita alla Madonna perché sinonimo della sua purezza.
Siamo soliti intendere l’architettura in senso tradizionale, concependola come un insieme di forme rielaborate tramite il cemento, la pietra, l’acciaio o il vetro; ma ci sono altri elementi che concorrono in maniera altrettanto importante nella definizione di un oggetto architettonico, quegli elementi naturali che interagiscono con l’edificio e che spesso ne amplificano le qualità tecniche e formali.
Questi possono essere, ad esempio, la luce o l’acqua che in questo caso non vengono intesi come agenti atmosferici, ma come materiali veri e propri che subiscono una trasposizione nel dato artificiale (se foste interessati, ho trattato questo argomento qui: https://spuntisullarte.wordpress.com/2016/05/15/tadao-ando-e-la-dimensione-naturale/ )
Un altro elemento naturale fondamentale è la vegetazione: le piante, con la loro crescita spontanea o artificiale, possono riuscire a mascherare la struttura dell’edificio, dissimulandola, mentre altre volte costruiscono loro stesse un’originalissima struttura. Voglio allora portare alla vostra attenzione due importanti esempi: uno del primo caso, in cui la vegetazione ricopre una o più parti di un edificio e, uno del secondo caso, dove col solo ausilio delle piante si è riusciti a creare una vera a propria cattedrale naturale.
La fusione totale fra tradizione e natura si può vedere a Parigi: a due passi dalla Tour Eiffel, si trova il più importante museo delle arti e delle civiltà primitive, il Quai Branly.
Jean Nouvel, Museo Quai Branly, Parigi
L’ambizioso progetto architettonico, che venne affidato a Jean Nouvel, è enfatizzato dal forte nesso fra edificio e giardino. L’edificio principale si presenta come un grande corpo sviluppato in orizzontale, sollevato da terra su pilotis (piccoli pilastri in cemento armato), al di sopra di un giardino rigoglioso ad opera di Gilles Clément.
Museo Quai Branly visto dal giardino
L’aspetto esterno della struttura sembra comunicare subito la complessità del compito affidato al museo, alla cui funzione di semplice esposizione rimanda il gioco di volumi, colorati e di diverse dimensioni in aggetto, che corrispondono alle vetrine interne. La soluzione architettonica adottata dovrebbe dar forma alle esigenze del museo e, indubbiamente, lo connota come una sorta di grande isola metropolitana.
Nouvel dichiara di essere stato molto attento al luogo in cui si situa la sua architettura, parla addirittura di “poetica della situazione”, in cui ciò che circonda la sua opera è quanto più possibile messo in risonanza e in valore…potremmo quasi dire che egli ha creato una situazione poetica per la sua opera.
Pur autore egli stesso di importanti giardini, qui Nouvel ha coinvolto anche altri soggetti: con paesaggisti famosi come Clément e Blanck ha creato una sorta di micro collezione di piante e fiori che, di notte, si accende in modo suggestivo, sottolineando l’effetto di foresta urbana, grazie anche ai bastoni illuminati sistemati sotto al corpo del museo.
Modificare attraverso gli eventi di carattere luminoso la natura stessa delle architetture è un altro degli obiettivi rivendicati dall’architetto Nouvel.
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Rispetto al giardino, il muro vegetale, che riveste la facciata rivolta verso la Senna, è intimamente connesso all’edificio, ne fa parte in quanto fa adottare sorprendentemente al suo “prato” la dimensione verticale, negando la sua naturale disposizione in piano.
Museo Quai Branly, particolare del muro vegetale
Si tratta di una dichiarata opera d’arte che scombussola i codici dei materiali generalmente usati nell’operare artistico e si discosta anche dalla comune arte topiaria, la tradizionale creazione di sculture con le piante. In questa composizione, a opera di Patrick Blanck, si unisce il prestigio tecnologico alla duttilità delle piante, di cui si sottolinea costantemente la poca energia richiesta per vivere a fronte di una grandissima creatività.
La presenza di questo muro vegetale è soprattutto una forte dichiarazione di sostenibilità a cui è improntata tutta la progettazione del museo: contribuisce sempre alla sostenibilità del complesso un impianto di pannelli fotovoltaici, che riveste le pareti verticali e i tetti, mentre sonde geotermiche nel sottosuolo sfruttano l’inerzia termica del terreno per risparmiare energia per la climatizzazione.
Per chi volesse vedere interamente la struttura del museo, vi lascio qui un link di un video:
Il secondo esempio invece riguarda la Cattedrale vegetale di Giuliano Mauri.
Giuliano Mauri, Cattedrale vegetale, 2001, Trento, Val Sella
La Cattedrale è qualcosa di diverso da un’opera architettonica, religiosa o estetica oppure, forse, è tutto ciò ma anche qualcosa in più. La struttura, così grande, serve a custodire e guidare la crescita di ottanta alberi: i rami di potatura, che Mauri utilizza abilmente, sono congiunti in veri e propri pilastri che si sollevano fino a dodici metri, incurvandosi in alto e poi ad ogiva per altri tre metri. I pilastri, disposti a coppie, disegnano delle arcate come volte di una navata gotica.
Credere nel sogno di Giuliano Mauri è una necessità: immaginare un luogo di culto e di aggregazione dove esiste solo la natura con la sua forza e i suoi silenzi, poter contemplare il cielo e pregare ognuno a proprio modo ti permette interamente di entrare nell’opera.
Nel lavoro di Mauri c’è gioia, c’è silenzio e molta laica religiosità; c’è voglia di fare, di lasciare un segno che ognuno di noi potrà leggere, potrà decifrare e che potrà condividere.
La Cattedrale vegetale rievoca in noi molte emozioni, incontra qualche nostro bisogno indefinito, ma lo fa con leggerezza, lasciandoci spazi per guardarci attraverso, come le sue alte e possenti colonne. Riesce anche ad intimidirci con le se dimensioni: l’altezza e la monumentalità rievocano grandi fatiche e grandi invenzioni, ricordano le grandi aspirazioni architettoniche e religiose degli uomini che, in ogni periodo della loro storia, hanno provato a sfiorare i loro limiti e le loro possibilità, rivolgendosi alle loro divinità, cercando di raggiungerle con una preghiera sussurrata.
Citando Giuliano Mauri “un’opera d’arte riempe sempre un vuoto nell’anima“.