Mussolini e l’immagine del potere

È ormai noto a tutti che la persona che esercita “potere”, sia essa politica, militare o regale, per carisma o quant’altro, si sia servita dell’immagine e quindi dell’arte, per semplici scopi propagandistici, memorialistici e celebrativi. La storia e la storia dell’arte ne è piena di questi esempi: dall’Antica Roma fino alla contemporaneità.
La persona che esercita potere diventa quindi un’icona, alla quale le persone possono identificarsi o meno a seconda del contesto.
Per l’articolo di oggi, ho deciso di trattare tale argomento, l’immagine del potere, concentrandomi su un personaggio molto discusso nella storia contemporanea italiana: Benito Mussolini.

Nel Ventennio l’immagine del corpo e del volto del duce venne sottoposta a un’eccezionale trasformazione e trasfigurazione, allo scopo di creare una vera e propria icona del potere. Onnipresente e pervasiva nella società e nell’immaginario popolare, tanto da essere il ricordo visivo più forte del fascismo, l’icona di Mussolini estesa alle arti figurative, al cartellone, alla statuaria monumentale, al cinema rivestì uno specifico ruolo nel linguaggio della comunicazione, trasferendo in diverse declinazioni e varianti di medium e forma differenti opzioni propagandistiche o celebrative.

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Ritratto di Mussolini di Adolfo Wildt, foto d’epoca

La sovraesposizione dei busti wildtiani di Mussolini nelle mostre internazionali si alternava agli stilemi modernisti proposti nelle opere dei futuristi, Thayath e Prampolini in primis. Quest’ultima, corrispondente alla descrizione di Mussolini dettata da Marinetti nel 1929:
«Mascelle quadrate e stritolanti. Labbra prominenti […] testa massiccia solidissima […] testa dominatrice, proiettile, quadrata […] denti d’acciaio».

 

All’aprirsi degli anni Trenta, più tradizionali e legate a convenzioni passate apparvero le effigi del leader presentate alla XVII Biennale di Venezia, quando venne promosso dal Partito nazionale fascista un concorso a premi per «un quadro ispirato a persone o eventi della formazione dei Fasci di combattimento».
Il regolamento prevedeva che l’opera presentasse almeno una «figura a grandezza del vero», coincidente in molti casi con Mussolini stesso.

Nell’allegoria Incipit novus ordo di Arnaldo Carpanetti, il duce appare idealizzato come un cristo giudice che, a capo di manipoli di squadristi, caccia i reprobi dal nuovo ordine italiano. Oppure è raffigurato svettante a cavallo: a dominare la folla nella composizione di Tommaso Cascella; eroico sul destriero bianco mentre le Camicie nere immobilizzano il drago scarlatto nel quadro di Primo Conti, allusivo a modelli davidiani e romantici.

L’immagine equestre del duce, già ampiamente acquistata all’iconologia del Ventennio, divenne un vero e proprio tòpos iconografico. Nelle tele aveva la funzione di combinare i generi del ritratto e del quadro di storia, seguendo il convincimento di Margherita Sarfatti che riteneva la sola pittura storica in grado di rappresentare l’epos del fascismo e le virtù morali del capo. Diversamente, la fotografia appariva insufficientemente allo scopo, poiché «contraria all’essenza stessa della vera grande arte, di sua natura mistica e leggendaria».

A dispetto di quanto sosteneva la giornalista e critica d’arte, negli anni Trenta la fotografia ebbe invece una funzione determinante nei meccanicismi del “consenso” e della rappresentazione pubblica di massa della figura di Mussolini. Più delle fotografie dell’Istituto Luce e dei ritratti fotografici di gusto pittorico di Ghitta Carell, sono però i fotomontaggi a connotare adesso l’immagine del duce. Nella pratica del fotomontaggio, derivata dalle esperienze delle avanguardie tedesche e sovietiche, l’uso della figura retorica della ripetizione, dell’immagine singola e della sovrapposizione si coniugava alle citazioni di un’iconografia popolareggiante, trovando soluzioni di estrema efficacia visiva.

Per l’inserto Udite! Udite!, nell'”Almanacco Letterario Bompiani” del 1937, Bruno Munari sperimenta ritagli circolari per elaborare strutturalmente un lavoro innovativo sia dal punto di vista artistico che grafico.
In Io non amo i sedentari – affermazione perentoria contro lo stereotipo dell’italiano perdigiorno – la fotografia del duce arringante, in un segmento circolare, campeggia sullo sfondo dello stadio di Atene mentre, in primo piano e in trasparenza, si staglia la statua di Apollo del frontone del tempio di Zeus a Olimpia.
Nel fotomontaggio pubblicato su “La rivista Illustrata del Popolo d’Italia” nel novembre 1935, Marcello Nizzoli riutilizzava due fotografie già pubblicate sulla stessa rivista: vi si alternano, un primo piano del duce, e un aereo, il nuovo potente quadrimotore dell’Ala Littoria.

La moltiplicazione e la circolazione di immagini ricorrenti del capo di governo, la loro riproduzione frammentaria nei fotomontaggi ed esplosa nelle gigantografie, si era avviata a partire dalla romana Mostra della Rivoluzione fascista del 1932, quando l’uso della fotografia era diventato centrale nell’allestimento e nell’architettura delle sale al palazzo delle Esposizioni. L’impiego del nuovo mezzo sembrava perfettamente in linea con l’immagine di modernità che voleva dare il regime.

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Durante gli anni Trenta si osserva, però, come ricorda Emilio Gentile, un graduale mutamento nello sforzo di rappresentare Mussolini, una sorta di pietrificazione della sua figura: il duce si tramuta in statua vivente. Le immagini fotografiche e le sculture lo ritraggono in pose marziali, irrigidite, severe, moderna reincarnazione degli imperatori romani.
Un simulacro del dittatore trasmesso più e più volte dalla stampa è l’enorme effigie scolpita in un masso di pietra ad Adua nella colonia africana dell’Abissina, opera anonima di soldati artisti.
Pubblicata nell'”Illustrazione italiana” del febbraio 1936, in aprile fu ripresa sulla copertina dell'”Illustrazione del Medico” e da Heartfield in un sarcastico fotomontaggio per la rivista comunista “AIZ”, dove una sorta di doppio monumento al fascismo vede il profilo del duce fronteggiare una montagna di teschi, di soldati morti per la sua responsabilità. Il titolo dell’immagine, Faschistische Ruhmesmale (Segni della gloria fascista), ribadisce la chiave di lettura del montaggio, sottolineando una dissacrante e ironica critica alla degenerazione del quadro politico, che l’artista tedesco aveva già condotto nei lavori dedicati al nazismo.

Abbiamo visto, quindi, come il ritratto di Mussolini cambia dal Ventennio  al Trentennio, ma quali sono gli elementi visivi di questo cambiamento nelle opere d’arte?
Il ritratto pubblico di Mussolini diventa un’icona: perde caratteri umani per diventare Duce. Il Regime ha infatti bisogno di miti: il mito delia modernità, del movimento, della velocità, il mito della macchina, dell’automazione, del progresso, miti di forza e fascinazione tale da trascinare le masse, che viceversa restano umanissime, rappresentate durante le adunate o mentre ascoltano alla radio il discorso del Duce.

La nuova immagine trasfigura l’uomo secondo il mito della modernità futurista, come nel ritratto di Dottori, basato sulla rappresentazione della rifrazione luminosa, con il volto monumentale circondato da aerei da guerra, o in Dinamica dell’azione di Prampolini, in cui il cavallo non è più quello dei monumenti equestri ma è il dirompente principio del movimento di Boccioni. Così nel Grande Nocchiere di Thayhat Mussolini non è più il condottiero con l’armatura, ma un gigante d’acciaio, un automa meccanico ultra umano, bellicoso e apparentemente invincibile, che conduce  il Paese verso l’imminente guerra. Quella sintesi plastica che da il titolo al ritratto del duce di Thayhat caratterizza in buona parte della scultura, dove si fa più evidente la riduzione dei tratti fisici a volumi semplificati. La fronte corrucciata,  la mandibola prominente e volitiva, il cranio rasato e lucido come un elmetto diventano altrettanti elementi caratteristici, che non dipingono più un ritratto ma identificano altrettanti valori: il pensiero, la forza, la volontà, la virilità.

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La diffusione di quest’iconografia in bilico tra propaganda e sperimentazione stilistica è ben rappresentata dal Profilo continuo di Bertelli, in cuiil dinamisno futurista si mescola alla cronofotografia, creando una scultura che fu oggetto diffusissimo, in tutti i materiali, all’interno delle abitazioni degli italiani.  

Articolo pubblicato il 13 aprile 2016

Scritto da Max

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