Monte Fuji: dimora degli spiriti

In questo breve articolo vi parlerò dell’importanza che riveste il Monte Fuji per i giapponesi, concentrandomi sull’opera di Katsushika Hokusai: il “Fugaku Hyakkei” ovvero le 100 vedute del monte Fuji.

Katsushika Hokusai è uno dei più celebri artisti giapponesi appartenenti al filone dell’Ukiyo-e, parola che significa “immagini del mondo fluttuante”.  Nelle sue stampe egli rappresenta la società del suo tempo, i paesaggi e le persone dell’epoca, raffigurando il Giappone del XIX secolo in tutte le sue sfaccettature.
Considerato l’artista giapponese più conosciuto al mondo, egli infatti fu d’ispirazione per i pittori occidentali, quali impressionisti e post impressionisti europei.
Pittore e incisore, realizzò una pittura capace di una conciliazione artistica tra l’arte tradizionale giapponese con le influenze occidentali. La grandezza di Hokusai è racchiusa proprio nel saper imprimere nelle sue stampe la mutevolezza della natura.

Il Fugaku Hyakkei – Le cento vedute del monte Fuji – sono una serie di silografie edite in tre album in formato hashibon, rilegati alla maniera dei libri popolari giapponesi di questo periodo. Sono stampate in sumizuri con inchiostro nero, definite da sfumature e gradazioni di grigio. Contengono ciascuna una trentina di silografie molte delle quali occupano le due pagine.
Il titolo promette 100 vedute del monte Fuji, ci si aspetterebbe quindi di trovarsi di fronte a una raccolta di paesaggi, ma ci si rende subito conto che non è il puro paesaggio ad essere il vero protagonista del libro e anche se la sagoma della sacra montagna compare quasi sempre sullo sfondo, non fai praticamente mai bella mostra di sé; fa piuttosto da guardiano ad un operosa umanità sempre impegnate in una qualche attività lavorativa oppure semplicemente in cammino verso una qualche meta.
A differenza del suo collega Hiroshige che: attratto dalla pittura di paesaggio di Hokusai, sperimentò questo nuovo genere, da prima imitandolo e poi elaborando un proprio stile, che appare nettamente definito nelle serie di stampe dedicate alle “53 stazioni delle strada di Tōkaidō“, ricche di scene di città pittoresche, dove il paesaggio è portato a svolgere un ruolo di primo piano.
La raffinatezza di questa serie sta anche nel fatto che Hokusai rinuncia alla gamma di colori della quale aveva fatto ampio uso nella serie precedente intitolata “Trentasei vedute del Monte Fuji“, per una resa in bianco e nero.

Cantava un poeta dell’VIII secolo:
Da quando il cielo fu separato dalla Terra, orgoglioso, nobile, divino, troneggiava il monte Fuji”.

Uno dei motivi per il quale il Fuji è interpretato come monte sacro è dovuto all’influenza esercitata dalle numerose pratiche Shintō che regolavano i ritmi e la vita nell’arcipelago e che fecero della natura e delle sue innumerevoli manifestazioni un oggetto di culto, espressioni terrene dei Kami (divinità).
Per lo Shintō, infatti, il Fuji è chiamato anche Yama no Kami, ovvero dimora degli spiriti, dei ancestrali della montagna personalizzati nella divinità di Konohana Sakuya Hime, discendente di Inzanami e Inzanagi, la coppia divina che originariamente, secondo la mitologia, ha creato l’arcipelago del Giappone.
In epoca Edo, a partire dal Seicento sotto lo shogunato Tokugawa (1603 – 1868), si sviluppò un movimento di culto detto Fujiko con gruppi di pellegrini che scalavano il monte sacro come segno di devozione.

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Katsushika Hokusai, Fugaku Hyakkei, vol.1,  tav. 5

Anche Hokusai rappresenta nella sua opera questa tradizione tutt’ora praticata: la scena è ripresa dall’alto e ci mostra una gran quantità di ajirokasa, un tipo di copricapo molto comune nel Giappone dei Tokugawa.

Naturalmente sotto ciascuno di essi c’è un pellegrino del quale individuiamo anche la punta del bastone.

L’elemento che attira subito il nostro sguardo è il volto umano di un pellegrino che sta soffiando in una conchiglia.

Lo stesso culto del Fujiko confermò anche la divinità principale del Fuji, venerata nei santuari presenti sul monte e negli altari di famiglia.

Si tratta delle dea Konohana Sakuya Hime, di cui raccontano le prime cronache sulla mitologia delle origini dell’arcipelago dell’VIII secolo presenti nel Kojiki.
Il nome significa letteralmente “Principessa luminosa come l’albero fiorito”, ovvero la principessa che fa fiorire i ciliegi.
Nella mitologia giapponese la dea Konohana Sakuya Hime occupa un posto di primo piano in qualità di divinità a cui è affidata la sacra montagna del Fujiyama.
Dea dei fiori e associata al fuoco e forse per questo successivamente anche al Fuji (trattandosi di un vulcano), a cui la città di Fujiyoshida dedica ogni anno il 26 agosto la “cerimonia del fuoco” accendendo torce in suo onore e chiudendo la stagione di scalinata del Fuji.

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Katsushika Hokusai, Fugaku Hyakkei, vol. 1, tav. 1

Questa disegno ci mostra una bellissima donna che indossa un abito d’elegante fattura ma stropicciato all’inverosimile, in deciso contrasto quindi con l’armonia del volto composto e solenne incorniciato da una nerissima capigliatura fluente e ordinata, certamente un volto di una Dea. Nella mano destra presenta, tenendolo ben alto e visibile, uno specchio tondo, mentre con la sinistra regge, appoggiandolo a una spalla, un ramo sacro di sakaki.
Per i giapponesi lo specchio è il simbolo più elevato in quanto emblema della grande Dea Amaterasu, oltreché espressione di chiarezza e sincerità d’animo. Anche in questo caso è presente il monte Fuji: l’immagine di Konohana personifica la sacra montagna.

Articolo scritto il 27 febbraio 2016

Scritto da: Max

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Decostruttivismo: architettura senza geometria

In questo primo articolo ho deciso di parlare di una delle mie passioni, l’architettura e, da cosa potevo partire se non dall’ultimo, in ordine di tempo, degli stili considerati “internazionali” in campo architettonico?

Sappiamo che la nascita del fenomeno decostruttivista avviene a New York, ad una mostra organizzata da Philip Johnson, sul finire degli anni Ottanta del XX secolo…ma cos’è il decostruttivismo? Si può dire che nasce come reazione al movimento post-moderno e si basa sul rifiuto totale della purezza formale e della geometria euclidea e, quindi, sulla totale mancanza di tutti quegli elementi e di quelle strutture considerate, fino a quel momento, parte integrante di quest’arte. Si disegnano, allora, edifici dove il “caos” fa da padrone, dove le strutture sembrano sempre instabili, tagliate, scomposte e disarticolate,  dove gli spazi si compenetrano e i materiali si torgono e si piegano al loro massimo, dando appunto l’aspetto di qualcosa che possa crollare da un momento all’altro. Sono architetture fantastiche dove l’ordine e il disordine convivono. Per permettere la massima plasticità dei volumi, sono necessari tutti quei materiali considerati high tech e tecnologicamente avanzati, come il vetro, il cemento armato e l’acciaio. Esiste però un filone comune a tutti questi esponenti: prima di tutto, la teoria decostruttivista del francese Jacques Derrida e, poi, le ricerche condotte dagli architetti russi negli anni Venti del XX secolo, che furono i primi a rinunciare all’idea di equilibrio e di unità che stavano alla base della composizione classica. Questo fu il precedente storico che gli architetti decostruttivisti come Zaha Hadid, Frank O. Gehry, Rem Koolhass, Daniel Libeskind e Peter Eisenman si trovarono ad abbracciare e ad esasperare. Tra queste archi-star, Gehry è forse il maggiore fra gli architetti decostruttivisti anche se, non lo sentirete mai ammetterlo pubblicamente.

Vediamo ora alcuni famosi esempi di questa architettura “contorta”!

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Frank O. Gehry, Casa danzante, Praga, 1994-1996

La Casa Danzante, in ceco Tančící dům, venne progettata dall’architetto Milunic, in collaborazione con Frank O. Gehry, sul lungofiume di Praga, in una zona che venne distrutta durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Originariamente chiamato Fred and Ginger, l’edificio ricorda vagamente una coppia di ballerini, assimilati a Fred Astaire e Ginger Rogers. Anche se lo stile costruttivo riprende tutti quelli presenti per la maggiore nella capitale dello stato ceco, quali il Neobarocco, il Neogotico e l’Art Noveau, l’edificio creò subito delle controversie per la sua bizzarra originalità.

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Zaha Hadid, Vitra Fire Station, Weil am Rhein, 1990-1993

Situata ai margini del campus della Vitra, questa caserma dei pompieri segna la zona con la sua forte identità. La Hadid ha dichiarato di voler rappresentare, con questi muri che sembrano scivolare gli uni sugli altri, lo stato di allarme e di tensione che può esplodere in movimento in caso di emergenza. Interamente realizzato in cemento armato, l’edificio è privo di qualsiasi forma di decorazione, delineando, così, un linguaggio asciutto volto a esaltare lo spazio e la sua dinamicità.

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Daniel Libeskind, Imperial War Museum North, Manchester, 2002

La sede del museo della guerra venne progettato da Libeskind con una complessa geometria di piani e di superfici inclinate per creare, nel visitatore, una sensazione di disorientamento, simile allo stato che si prova durante un bombardamento. La struttura dell’edificio, che prende a modello (citando lo stesso Libeskind) il mondo intero, si compone di tre parti (la air shard, la earth shard e la water shard) e alludono alla guerra su terra, mare e in cielo.

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Peter Eisenman, Denkmal fur die ermordeten Juden Europas, Berlino, 2003-2005

Il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, viene progettato dall’architetto Eisenman per commemorale tutte le vittime della Shoah. Situato dove originariamente si trovava il palazzo di proprietà di Goebbels, consiste in una superficie vastissima occupata da stele di calcestruzzo di colore grigio scuro, poggianti su un fondo stradale inclinato e disposte secondo una griglia ortogonale. Secondo l’idea di Eisenman, le stele sono realizzate per disorientare e creare, in chi le percorre, una sensazione di solitudine e impotenza.

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Rem Koolhaas, CCTV Headquarters, Pechino, 2004-2008

La sede della China Central Television non è un grattacielo tradizionale, ma un anello continuo formato da sei sezioni orizzontali e verticali, con il centro aperto. La parte superiore è formata da due grandi L rovesciate, unite a creare un angolo retto. La costruzione di quest’edificio è considerata una sfida strutturale, sia per la forma sia perché sorge in una zona sismica.

In conclusione, con questi esempi, ho voluto mostrarvi che, architetti come Gehry o Hadid, vogliono mostrare una percezione diversa, quasi “disturbata”, in una dimensione che non è più solo architettura, ma delle volte anche scultura, dove i linguaggi si influenzano e si contaminano in una nuova sensibilità artistica che produce forme nello spazio.

Articolo scritto il 27 febbraio 2016

Scritto da Malerin