Il liberty italiano di Galileo Chini

È interessante notare come del Modernismo ci si concentri principalmente sull’architettura. Il Modernismo è anche altro come ad esempio l’arte grafica (riviste, manifesti, cartelloni pubblicitari ecc.), il design industriale (sedie, mobili, incisioni, vasi ecc.), la pittura e così via. In questo articolo parlerò del Modernismo italiano concentrandomi sulla figura di Galileo Chini, un artista che come noterete subito ha forti richiami all’arte di Klimt.

Tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e la Prima Guerra mondiale, l’Europa fu interessata da correnti artistiche stilisticamente coerenti, estese a diversi ambiti di produzione e capaci di interpretare il progresso tecnologico della nuova società industriale. Esse compongono genericamente il movimento detto Modernismo. Con caratteri simili all’arte simbolista, ma più esuberanti e inclini alla ricerca dell’eleganza, il Modernismo espresse le aspirazioni della società borghese della Belle Époque.
Nato in Gran Bretagna come stile decorativo, legato al crescente uso del ferro nei padiglioni espositivi ed alla diffusione dell’arte grafica, prese il nome di Art Nouveau in Belgio e in Francia, Modern Style in Inghilterra, Sezessionstijl in Austria e Boemia, Jugendstijl in Germania, stile Liberty o Floreale in Italia. Caratteri autonomi ebbe il Modernismo in Catalogna, regione nord-orientale della Spagna.
Come si può notare da queste differenti denominazioni, l’arte modernista volle comunque sottolineare il proprio distacco dal passato e dalla tradizione.

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Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo si rinnovò in Italia, sull’onda delle esperienze europee, l’interesse verso le aree termali. Queste rappresentavano i nuovi modelli di benessere della classe borghese, perché facevano coincidere i luoghi di cura e per lo svago.

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Particolare dello scalone del Casinò di San Pellegrino, presso Bergamo, 1906

Nuovi stabilimenti termali si affiancarono a quelli vecchi, delineando l’idea della città come luogo del piacere, il cui emblema divenne il Kursaal, centro di cura e di ritrovo, dotato di caffè-concerto e sale da gioco.
Il disegno urbanistico raccordava tale edificio con
altri servizi: alberghi, parchi, attrezzature per il tempo libero, i campi da gioco e la città. Con il passare degli anni, dunque, il complesso termale divenne la città stessa, la ville d’eaux (la città delle acque). In Italia San Pellegrino, Recoaro, Salsomaggiore, Montecatini e Acqui, furono soggette a profonde revisioni urbanistiche.
Lo stile architettonico e decorativo, coerente a tale scenario di benessere e buon gusto, non poteva che essere il Liberty, con le decorazioni esuberanti, ma aggraziate, preferito allo stile neoclassico. I saloni venivano decorati a stucco, o ridipinti con affreschi a tema mitologico o naturalistico.
San Pellegrino Terme, in Lombardia, è il caso più significativo di città d’acqua omogeneamente costruita in stile liberty.

Nell’ambito estetizzante e raffinato dei complessi termali si sviluppa l’opera del pittore fiorentino Galileo Chini. Attento alle esperienze europee, egli è conosciuto per le grandi decorazioni murali, realizzate sopratutto in sedi espositive (come la Biennale di Venezia) e nei saloni delle terme di Montecatini e Salsomaggiore.
Le sue opere figurative sono caratterizzate dall’accordo tra le figure e lo spazio architettonico in cui sono inserite. La sua maturità toccò il vertice nella sperimentazione di tecniche e ambiti espressivi diversi, quali la ceramica e la grafica, la scenografia e la decorazione.

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Ma ora concentriamoci sulle terme di Montecatini perché al loro interno si trova un’opera significativa di Galileo Chini che lo lega particolarmente allo stile dell’arte di Klimt, opera che poi trovo particolarmente piacevole.
All’interno delle terme di Montecatini va sottolineato tuttavia la presenza di numerose opere di Galileo Chini, prevalentemente ceramiche, vetrate e pavimenti, ecco qualche immagine:

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Nel 1914, ritornato da un viaggio in Siam, realizza diciotto pannelli per la sala dedicata all’opera dello scultore slavo Ivan Mestrovic alla Biennale di Venezia.

Ed è in questo la-primavera-che-perennemente-si-rinnova-1914-jpglargeperiodo che il suo stile è più vicino all’arte di Klimt, come mostrano anche La primavera che perennemente si rinnova, uno dei pannelli dipinti per Montecatini nello stesso 1914, in cui piega il simbolismo dell’austriaco a un uso pienamente decorativo, irrigidendone gli stilemi e amplificandone fino al parossismo l’effetto ornamentale.
Pannello con decorazioni floreali, dove si sovrappongono in modo scalare fanciulle con i pepli.

Le diciotto opere, di quattro metri di altezza, trattano il tema della Primavera e della Rinascita della vita attraverso la progressione di quattro momenti figurativi: La primavera classica, L’incantesimo dell’amore e La Primavera della vita, La Primavera delle selve e La Primavera che perennemente si rinnova. Le opere furono realizzate al rientro dell’artista da Bangkok, dove aveva portato a termine la decorazione del Palazzo del Trono per il re Chulalongkorn. Galileo Chini affronta l’incarico consegnatogli dalla segreteria della Biennale solo un mese prima dell’inaugurazione della rassegna veneziana, riuscendo in poco tempo a realizzare una delle sue decorazioni più riuscite.

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L’autore spiegando il senso della sua opera, dice di averla eseguita traendo ispirazione dalla primavera a Venezia, quando la città accoglie gli artisti di tutto il mondo per questo evento e alla primavera spirituale che eternamente si ripropone.

Per chi volesse approfondire l’argomento segnalo questo sito:

http://www.arteliberty.it/arte_chini2.html (immagini)

Scritto da Max

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Un gioiello a forma d’uovo

Nel lungo periodo di attività di questo blog abbiamo spesso affrontato diverse tematiche e diverse tipologie di arte: da occidente a oriente, ci siamo soffermati sulla scultura, abbiamo analizzato l’architettura, approfondito la pittura e l’incisione… ma l’oreficeria? Perché non dedicare un articolo alla grande oreficeria della corte Zarista e, in particolare, alle uova Carl Fabergé?

Era 1885 quando il nuovo gioielliere imperiale, Fabergé, ricevette dallo Zar Alessandro III di Russia l’incarico di realizzare, come regalo di Pasqua per la moglie Maria, un uovo speciale. Quell’uovo però non era di cioccolato, bensì decorato con gioielli e pietre preziose, costruito con una maestria davvero impressionante.

Per conoscere pienamente questi capolavori, dobbiamo prima soffermarci sulle usanze ortodosse relative alla celebrazione della Pasqua.

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Carl Fabergé, Primo uovo con gallina, 1885

La Pasqua è la più importante celebrazione della fede ortodossa in Russia: terminate le funzioni religiose, le famiglie si riuniscono e portano in dono uova decorate che simbolicamente alludono alla vita e alla speranza.
Durante l’Ottocento, gli aristocratici di Mosca e San Pietroburgo celebravano la festività regalandosi oggetti preziosi e, proprio in questo contesto, fu lo Zar a primeggiare: Alessandro III, infatti, decise di sorprendere la Zarina con un gioiello mai visto, un uovo dorato completamente rivestito di smalto bianco opaco che ricordava un vero e proprio uovo di gallina.
La mattina di Pasqua, Fabergé consegnò a palazzo questo regalo e l’imperatrice rimase molto stupita quando scoprì che, al suo interno, era nascosto un tuorlo dorato che, come una matrioska, celava una piccola sorpresa: una gallina d’oro.

Il dono fu così apprezzato che all’orafo fu richiesto di crearne uno ogni anno, ognuno ispirato  agli eventi della madrepatria e alla vita famigliare del casato Romanov.

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Carl Fabergé, Uovo di Cristallo con miniature girevoli, 1896

La creazione delle uova richiedeva un anno di duro lavoro: tutto partiva dalla progettazione del pezzo, ispirato ai momenti memorabili del casato imperiale e, per richiesta specifica dello Zar, ogni uovo doveva svelare, al suo interno, una o più sorprese.
Il risultato finale era sempre fantastico e artisticamente superbo, tanto che al Salone Mondiale di Parigi del 1900, le uova imperiali vennero acclamate diffondendo la fama di Fabergé in tutta Europa, promuovendo le sue opere in tutto il continente.

Nessuno dei membri della famiglia reale, fino al giorno di Pasqua, sapeva come sarebbe stato l’uovo e che sorpresa avrebbe contenuto.

Dopo la morte del padre, il nuovo Zar Nicola II chiese ogni anno a Fabergé un uovo per la moglie e uno per la madre.
Ancora una volta uscirono dei capolavori, come l’Uovo di Cristallo, in ricordo della grande storia d’amore tra lo Zar e la Zarina oppure, quello per festeggiare la nascita della ferrovia Transiberiana o anche l’enorme uovo sulla storia del Cremlino, che raccontava la lotta dell’esercito russo contro Napoleone.

Fra il 1885 e il 1917 (anno della caduta dei Romanov), furono realizzate 59 uova: 52 commissionate dagli imperatori mentre, le restanti 7, commissionate dal nobiluomo Alexander Kelch per regalarle alla moglie Barbara.

Ora proviamo a soffermarci su tre importanti esempi: il Memoria di Azov, l’Uovo di Pietro il Grande e l’Uovo con gallo.

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Uovo Memoria di Azov

L’uovo del Memoria di Azov venne fabbricato a San Pietroburgo nel 1891. Regalato alla Zarina Maria, questo uovo è realizzato in eliotropio (una pietra verde scuro), oro, diamanti, rubini, platino, acquamarina e velluto.
Il guscio è ricavato da un blocco unico di eliotropio screziato di rosso e blu, a cui è sovrapposto un motivo a volute dorato decorato con brillanti e fiori d’oro lavorati a sbalzo, in pieno stile rococò. Sui bordi delle due metà è presente un’ampia fascia d’oro scanalata, con un rubino a goccia e diamanti che costituiscono la chiusura.

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Corazzato Pamiat Azova

La sorpresa contenuta all’interno commemora il viaggio della Pamiat Azova in Estremo Oriente: è una fedele riproduzione dell’incrociatore corazzato della Marina militare russa, realizzato in oro rosso e giallo, platino e piccoli diamanti per i finestrini, mentre il nome Azov compare inciso sulla poppa. La nave è poi posta su una lastra di acquamarina che rappresenta il mare.

Un altro eccezionale esempio della maestria orafa di Fabergé è l’Uovo di Pietro il Grande, un dono che Nicolò II fece alla moglie Aleksandra nel 1903.

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Uovo di Pietro il Grande, 1903

Quest’uovo celebra il duecentesimo anniversario della fondazione di San Pietroburgo, avvenuta nel 1703. Decorato in stile rococò, è fatto d’oro rosso, verde e giallo, platino, diamanti, smalto, rubini e zaffiri.
Il corpo dell’uovo è coperto da foglie di alloro, rose e giunchi, a simboleggiare l’acqua come fonte della vita. Sulla parte superiore è presente una corona smaltata che circonda il monogramma di Nicola II, mentre la parte inferiore è decorata dall’aquila imperiale a due teste.
Il guscio presenta, inoltre, quattro miniature ad acquarello, che rappresentano il passato e il presente di San Pietroburgo, con il Palazzo d’Inverno (ossia la residenza ufficiale degli Zar) e le rive del fiume Neva  (costruire da Pietro il Grande).
Sono presenti anche dei drappeggi in cui, oltre a comparire le due date fondamentali (1703 e 1903), si trovano le iscrizioni all’imperatore Pietro e a Nicola II.

250px-uovo_di_pietro_il_grande_-_sorpresaAlzando il coperchio dell’uovo, si può notare un meccanismo che solleva la sorpresa: la miniatura in bronzo del monumento a Pietro il Grande sulla Neva, che poggia su una base di zaffiro, circondata da una ringhiera d’oro cesellato.
La sorpresa è un chiaro riferimento al poema scritto da PuŠkin, il Cavaliere di Bronzo, secondo il quale nessun nemico conquisterà San Pietroburgo fino a quando il “cavaliere di bronzo” (ossia la statua dell’imperatore) resterà in mezzo alla città.

L’ultimo uovo, l’Uovo con gallo, venne invece commissionato, nel 1904, da Alexander Kelch per la moglie Barbara. È l’ultimo delle sette uova che, ogni anno dal 1898 al 1904, vennero ordinate dal nobiluomo su ispirazione delle uova imperiali.

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Uovo con gallo, 1904

Ispirato all’imperiale Uovo con galletto del 1885, il gioiello è in oro, argento, perle, diamanti e smalto blu reale.
Si tratta di un orologio, con il guscio coperto di smalto traslucido e decorato con festoni d’oro verde legati con nastri d’oro rosso, mentre una fila di piccole perle divide in due l’uovo lungo l’asse mediano e contorna il quadrante rotondo.
Sul retro dell’uovo, uno sportello consente di accedere al complesso meccanismo dell’orologio.
L’uovo è inoltre sostenuto da un piede conico che appoggia su un piedistallo, ornato da festoni d’alloro e foglie di acanto.

Sulla parte superiore dell’uovo, una griglia traforata circolare nasconde la sorpresa: un gallo d’oro smaltato e tempestato di diamanti che canta allo scoccare delle ore.

La tradizione di regalare delle uova è giunta fino a noi e, ogni anno, grandi e piccini corrono a comprare il proprio uovo di Pasqua che racchiude una sorpresa; certo, il nostro non è in oro e diamanti, ma direi che il cioccolato ci rende ugualmente felici.

Scritto da Malerin

Hokusai, Hiroshige, Utamaro

Ormai siamo quasi al volgere dell’anno e come chiudere in bellezza quest0 150° anniversario della conclusione del Trattato di Amicizia e di Commercio tra Giappone e Italia? Sicuramente con una bella mostra tematica caratterizzata da numerose opere, la cui maggior parte provenienti dall’Honolulu Museum of Art (il che rende ancora tutto più eccitante e irripetibile, considerando che un viaggio in America costa e non poco, almeno per me) ricca di opere, colori, spunti e riflessioni.
Una mostra che per i suoi contenuti, temi, soggetti, difficilmente sarà proposta nuovamente, almeno non subito. Il Giappone come avrò ribadito in più articoli è amato da molti, per il suo fascino artistico e culturale, ma è difficile organizzare qualcosa di concreto qui in Italia, se non per un forte impegno da parte di più persone. Non a caso l’ultima mostra di rilievo in tal senso è stata fatta nel 2010.

Tornando a noi, la mostra in questione sicuramente l’avrete già vista o sicuramente l’avrete messa in programma, si tratta di Hokusai, Hiroshige e Utamaro, la grande rassegna che il Palazzo Reale dedica ai tre grandi maestri dell’ukiyoe (immagini del mondo fluttuante), corrente artistica nata in epoca Edo caratterizzata da silografie dall’estremo impatto visivo. I soggetti principali o meglio i filoni di queste silografie sono: le raffigurazioni di luoghi celebri (meishoe), le beltà femminili (bijinga) e ritratti di attori kabuki (yakushae).

La mostra curata da Rossella Menegazzo, docente di Storia dell’Arte dell’Asia orientale e di Arti visive, design e spettacolo dell’Asia orientale dell’Università degli studi di Milano, si articola in una ben preciso percorso tematico attraverso silografie e libri illustrati, accompagnando il visitatore in un viaggio emozionante nel mondo dell’ukiyoe.
Questi percorsi tematici si articolano principalmente nella raffigurazione della natura e delle sue sfaccettature, quindi paesaggi, luoghi celebri, animali, di cui grandi esponenti sono Hokusai e Hiroshige:

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e nella rappresentazione delle beltà femminili, dai ritratti fino alla rappresentazione di scene quotidiane in cui sono protagoniste, realizzate da Utamaro:

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per giungere infine all’ultimo percorso tematico dedicato invece ai libri illustrati, i cosiddetti manga, di Hokusai.

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Tuttavia di una mostra non bisogna solo tener conto delle opere esposte ma anche l’allestimento e la comunicazione promozione di essa ricopre un ruolo fondamentale.
Al di là del contenuto della mostra che piacerà sicuramente a tutti trattandosi di Giappone, l’allestimento è  stato decisamente ben curato: gusto estetico orientale, l’illuminazione che non ostacola la visione dell’opera e molto altro ancora che noterete sicuramente alla mostra (come l’ultima sala ahahaha).
Per quanto riguarda invece la comunicazione e la promozione di tale evento è stato fatto altresì un ottimo lavoro: grandi manifesti raffiguranti l’icona grafica dell’ukiyoe, la grande onda di Hokusai, non solo in centro ma anche nelle periferie; numerosi comunicati stampa; giochi/eventi a tema; interviste. Lo stesso catalogo della mostra è ben curato e ricco di saggi critici, un’ottima idea regalo per gli appassionati di arte giapponese 😛

Quindi da come avrete potuto intuire è una mostra che merita di essere vista, non saranno soldi buttati all’aria, come invece lo è stato per la mostra su Boccioni!! L’unico consiglio che posso darvi è quello di andare alla mostra considerando almeno tre ore circa di visita (anche perché all’interno della mostra c’è un bellissimo filmato, che merita di esser visto e di cui non vi anticipo l’argomento, che dura una ventina di minuti circa. Molte persone, forse per impegni, hanno saltato la visione del filmato, o visto solo in parte 😦 ).

Per i nostri lettori non di Milano e impossibilitati a vedere la mostra ecco alcuni video inerenti. Non possono di certo sostituire la mostra ma possono lasciare un’idea su come è impostata e su quali opere ospita.

O anche la conferenza stampa di presentazione della mostra per ricevere più informazioni dettagliate e approfondimenti    inerenti all’argomento. https://www.facebook.com/HokusaiMilano/ (andare sulla voce “video” e cliccare il primo).

Per chi se lo fosse perso, lascio anche il link di un’approfondimento su Utamaro che feci mesi fa: https://spuntisullarte.wordpress.com/2016/06/26/le-donne-di-utamaro/

Scritto da Max

Uno sguardo artistico alla Commemorazione dei defunti

Quest’anno, come ricorrenza calendariale di Novembre, abbiamo scelto di parlare della Commemorazione dei defunti. Partendo, in breve, dalla nascita e significati di tale festa, giungeremo poi alle usanze e all’arte come testimonianza dell’eternità del ricordo del defunto.
In questo articolo parleremo dunque di: maschere funerarie e della chiesa di San Bernardino alle Ossa a Milano.

Dato certo di questa ricorrenza è che il defunto viene celebrato in tutte le civiltà antiche, sia esse occidentali che orientali, e non solo cristiane; ha quindi origini ed epoche differenti e la celebrazione avviene all’incirca nello stesso periodo: tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre.
Il rito della Commemorazione dei defunti sopravvive alle epoche e ai culti: dall’antica Roma, alle civiltà celtiche, fino al Messico e alla Cina, è un proliferare di riti, dove il ruolo principale è quello di consolare le anime e ricordare i defunti, perché essi possano vivere nel ricordo dei loro parenti, uno di questi culti/celebrazioni è la maschera funeraria.

L’uso di maschere funerarie è documentato da molte società del monto antico. Di terracotta, di cera, di metallo o di gesso, appoggiate sul cadavere o sull’urna, esse sono presenti sia nei rituali che prevedono l’inumazione o la mummificazione sia dove è praticata la cremazione.
Le testimonianze più antiche risalgono all’età neolitica quando erano costituite da uno strato di argilla modellato e dipinto direttamente sul volto del cadavere.
Ruolo delle maschere era quello di conservare il volto del defunto a consunzione.
La maschera non è mai un ritratto realistico del defunto, bensì una sua generica rappresentazione, la cui fissità riflette la rigidità espressiva del cadavere.

Maschere funerarie sono attestate in Egitto a partire dall’Antico Regno. Sono di gesso o formate da molteplici strati di stoffa rivestiti di stucco dipinto; quella di Tutankamon è la più conosciuto ed caratterizzata da lamina d’oro.
La maschera, parte del corredo trovato nella tomba scoperta nel 1922, è realizzata lavorando a pressione una lamina d’ora per ricavarne alvei successivi riempiti con incrostazioni di vetro e pietre preziose (lapislazzuli, ossidiana, quarzo e feldspato).

kenneth-garrett-national-geographicIl faraone indossa il copricapo chiamato nemes, un fazzoletto a righe che copre i capelli e parte della fronte. La barba posticcia intrecciata è lavorata con la tecnica del cloisonné.
La grande collana che pende sul busto è formata da file di lapislazzuli, quarzo e amazzonite. Nella zona delle spalle e sulla nuca compiano iscrizioni per la protezione del sovrano. Sulla fronte figurano le dee Nekhebet e Uadyet, rappresentati rispettivamente come avvoltoio e cobra.

Gli occhi sono di ossidiana e quarzo con tocchi di rosso agli angoli. Le orecchie sono forate per essere ornate con orecchini.
La sua maschera funebre d’oro massiccio, a grandezza naturale, posta a protezione della sua mummia, lo presenta nell’aspetto del dio Osiride. Nella simbologia egizia l’oro era “la carne degli dei”.

Pressoché ignorate in Grecia, esse ricompaiono nel mondo etrusco-romano. Per lo più di cera o di tela stuccata, la maschera degli antenati faceva mostra di sé nelle domus patrizie.
Dopo il Rinascimento l’uso di onorate i defunti illustri per più giorni dopo il decesso obbligò a sostituire la salma con i manichini di maschere di cera dipinta.

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Maschera (kpeliye), XIX-XX secolo, New York

Maschere non solo funerarie ma anche per la celebrazione di riti, come questa immagine: si tratta di una maschera elaborata e intagliata, indossata durante le cerimonie funerarie dai membri della società Poro, dall’etnia ivoriana dei Senufo. Le piume e le corna animali sono accessori inusuali e servivano forse ad accrescere il potere della maschera a combattere e allontanare dalla tribù le forze malefiche.
Le diverse parti del viso (fronte, zigomi e arcate sopraciliari) sono decorate con ornamenti geometrici di forma ricurva a rilievo e incisi. I lineamenti individuano un volto schematizzato e sicuramente femminile (come accennano le protuberanze simili a gambe presenti alla base del volto che alludono alla tradizionale acconciatura delle donne senufo).

Ecco altre immagini significative riguardanti le maschere funerarie:

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Nella tradizione più recente esse sopravvivono per scopi commemorativi nella forma del ritratto post mortem.

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Pablo Picasso, La morte di Casagemas, 1901, Parigi

Il ritratto post mortem corrisponde all’immagine grafica, pittorica, scultorea o fotografica di una persona realizzata subito dopo il suo decesso. Radicalmente diverso sia dalla maschera che dal calco e dal ritratto funebre, il ritratto post mortem nasce dall’esigenza di fissare la fisionomia del defunto nel momento irripetibile della sua morte.

Ma vediamo anche qualche altro esempio che non sia esclusivamente pittorico, anche per avere una visione più completa di tale fenomeno.

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Finora però ci siamo soffermarti su manufatti e opere il cui scopo principale era appunto quello di consolare e ricordare i defunti ma, c’è da domandarsi se esista un luogo dove si è deciso di commemorare non un defunto specifico, ma la morte in sé: uno di questi può essere sicuramente la chiesa di San Bernardino alle Ossa di Milano.

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Esterno della chiesa di San Bernardino alle Ossa

Situata nelle vicinanze del maestoso Duomo cittadino, la chiesa di San Bernardino presenta una storia atipica poiché, in epoca Romana e poi Celtica, in quell’area era situata una zona boschiva considerata sacra e denominata nemeton. Non a caso, ancora oggi, a ricordo di quel vasto territorio adibito poi a coltivazione, esistono due importanti vie, via Brolo e via Verziere. Quando, nel 1217, venne edificato un ospedale destinato ai lebbrosi, il cimitero attiguo divenne insufficiente ad ospitare le salme dei malati: si decise quindi di costruire una camera destinata ad accogliere le loro ossa, al fianco del quale, venne poi costruita la chiesa, dedicata successivamente a San Bernardino da Siena per volere della confraternita dei Disciplini.

Furono proprio i Disciplini a voler creare un ambiente del tutto singolare che, nella sua macabra struttura, lascia spazio a sensazioni ed emozioni piuttosto forti.

La chiesa, piuttosto semplice, presenta una pianta ottagonale con due cappelle laterali arricchite da altari marmorei. Appena entrati, procedendo e girando verso destra, si accede ad un breve corridoio in cui, il visitatore si trova davanti una scena alquanto macabra e sconvolgente: l’ossario.

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Chiesa di San Bernardino alle Ossa, interno dell’ossario

Le pareti interne di questo edificio, a pianta quadrata, sono quasi interamente ricoperte di teschi ed ossa, disposte in varie modi, provenienti tutte dai cimiteri soppressi dopo la chiusura dell’ospedale.
Tutte le ossa vennero poi disposte ad ornare le nicchie, i cornicioni, le porte, i pilastri in un motivo decorativo dove il senso del macabro si fonde con la grazia del rococò.

Sopra l’altare, decorato con marmi pregiati e raffigurazioni della Passione di Cristo, trova posto la statua di Nostra Signora Dolorosa de Soledad, vestita di un camice bianco e mantello nero, immortalata con le mani giunte e raccolta in preghiera.

8202301175_d7df98cd29_bMigliaia di ossa e di teschi, provenienti da individui sconosciuti e appartenenti a diverse epoche, sono qui raccolti per celebrare la morte. Per molto tempo si ritenne che tali resti appartenessero ai martiri cristiani, morti durante gli scontri con gli eretici ariani ai tempi di S. Ambrogio ma, in realtà, questi reperti provengono tutti dai morti dell’ospedale di via Brolo e dai frati e priori che lo dirigevano.

Con questo articolo abbiamo deciso quindi di compiere una sorta di percorso, un percorso che tocca diverse epoche, diverse tradizioni e diversi luoghi ma, soprattutto, diverse forme di arte, atte tutte a ricordare, in un modo o nell’altro, i nostri defunti.

Scritto da Max e Malerin