L’Iconoclastia

L’Iconoclastia (dal greco eikón, immagine, e klào, rompo) è un movimento di carattere religioso sviluppatosi durante l’impero bizantino, tra l’VIII e il IX secolo. Alla base di questo movimento vi era l’idea che la venerazione delle icone fosse spesso sfociata nell’idolatria, pubblica o privata, tanto da non venerare più il santo o la Vergine, ma la tavola su cui esso era rappresentato.

In sostanza, quindi, l’Iconoclastia è la lotta contro le immagini, proprio quelle immagini che dovrebbero dare, nel credente, una sensazione di salvezza.
Questa “lotta” ha come principale fondamento teologico l’affermata impossibilità di circoscrivere in un’ icona la natura divina di Cristo, secondo quanto diceva Mosè  nell’Antico Testamento:

“Non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai perché io, il Signore, sono il tuo Dio”.

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Salterio di Chludov, raffigurazioni di Gesù distrutte dagli iconoclasti (miniatura)

Nell’Esodo però si ricorda che le Tende del Tabernacolo, all’epoca di Mosè, erano ricamate con raffigurazioni di Cherubini ed altre creature angeliche; quindi l’icona in sé è lecita mentre la Bibbia condanna l’idolatria. Si opponevano agli iconoclasti (riassunti nelle figure dell’imperatore, del clero secolare e dell’esercito) gli iconoduli (parteggiano per questa idea le imperatrici e i monaci): per difendere la propria tesi, si appellavano alla natura umana di Cristo che, incarnandosi, può quindi essere raffigurato sotto l’aspetto umano.

Il secolo iconoclasta è, purtroppo, contraddistinto da estrema violenza sia verso i monaci, che difendevano a gran voce l’importanza delle immagini, sia verso le opere d’arte che vennero danneggiate, ricoperte o distrutte.
Gli studiosi suddividono questo periodo in due fasi principali: la prima, dal 730 al 787 (la fase più sanguinosa) e la seconda, dall’815 all’843. Entrambe le fasi sono caratterizzate dalla presenza di due imperatrici prodigiose, prima Irene e poi Teodora che, durante la loro sovranità convocarono due importanti concili (Concilio di Nicea e Concilio di Costantinopoli) per restaurare e ripristinare tutte le immagini sacre, nella capitale e in tutto l’impero.

Al di là delle motivazioni teologiche, molti erano i motivi per cui l’imperatore voleva abolire le immagini: va sicuramente ricordata la vicinanza con il mondo arabo, notoriamente avverso alle raffigurazioni degli esseri viventi; il culto superstizioso ed eccessivo delle icone e, soprattutto considerazioni di carattere politico- economico. Per questo ultimo aspetto, bisogna menzionare senz’altro l’invidia che l’imperatore provava verso le istituzioni monastiche, notoriamente ricche, e la voglia del sovrano di impossessarsi del loro tesoro per riutilizzarlo nella crescita statale.

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Grande moschea (Damasco), decorazione epoca iconoclasta

A causa delle distruzioni perpetrate, è difficile per noi farci un’idea della produzione artistica. Sappiamo dalle fonti che molti degli abomini idolatrici vennero ricoperti per far spazio a scene di caccia e di battaglia; assai gradite erano poi le immagini dei giochi del circo e i paesaggi, abitati da innumerevoli specie animali.

Altre fonti ci fanno intendere invece che le rappresentazioni sacre siano state sostituite da raffigurazioni di carattere simbolico e, il simbolo che domina incontrastato è quello della croce.

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Chiesa di Santa Irene (Istanbul), abside

A Istanbul sopravvive un esempio monumentale della grande croce, campita nel catino absidale della chiesa di Santa Irene. Questa fondazione è giunta sino a noi grazie alla ricostruzione promossa da Costantino V Caballino dopo il terremoto del 740. Le colossali dimensioni vengono mantenute nella nuova ricostruzione e vi viene apportata una nuova decorazione, tutta aniconica (senza personaggi), non solo nel catino absidale ma anche nel nartece, secondo i nuovi dettami iconoclasti.

Dopo la restaurazione da parte di Teodora, madre nonché reggente di Michele III, l’importanza delle immagini non venne più messa in dubbio a Costantinopoli ma, altri eventi iconoclasti si sono susseguiti nella storia.
Numerosi riformatori protestanti, fra i quali Zwingli e Calvino, incoraggiarono la distruzione delle immagini religiose appellandosi ai dieci comandamenti o alla sottointesa eresia pagana. Oggetto di questa distruzione furono i dipinti e le statue ritraenti santi ma anche le reliquie, le pale e i retabli che vennero dati alle fiamme in Germania, in Svizzera e nelle Fiandre (qui la rivolta fu così enorme da essere ricordata nella storia come la “rivolta degli accattoni“).

In ultimo ricordiamo che, al di fuori del contesto religioso, nella storia dell’umanità, soprattutto in periodi caratterizzati da cambi di regime, è capitato molto spesso che le opere d’arte o i simboli dei governi precedenti venissero distrutte dai ribelli in segno di prevaricazione.

Scritto da Malerin 

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Le figure femminili del Parmigianino

Prima di analizzare l’artista di oggi che, come desumerete dal titolo sarà appunto Parmigianino, vorrei scusarmi con voi lettori per l’assenza di questo periodo: purtroppo, con gli esami universitari da dare, sia io che Max, abbiamo avuto poco tempo da dedicare a noi stessi e a questo blog, ma ora torneremo più carichi di prima, con nuovi articoli e nuove proposte!

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Parmigianino, Autoritratto entro uno specchio convesso, 1524, Vienna, Kunsthistoriche Museum 

Ora, invece, concentriamoci su uno degli artisti che ha rivoluzionato la pittura italiana del Cinquecento maturo: Girolamo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino.

Nato a Parma nel 1503, Parmigianino completa la propria formazione ed educazione artistica prima presso la propria famiglia (dei documenti ci rivelano essere il figlio del pittore Filippo Mazzola) poi, studiando le opere del Correggio conservate appunto a Parma; la sua formazione, però, comprende anche lo studio delle opere di Dosso Dossi, del Pordenone e infine i dipinti settentrionali di Raffaello.

Dopo un soggiorno romano, avvenuto tra il 1524 e il 1527, il nostro artista matura uno stile classicamente monumentale, caratterizzato da un linguaggio raffinato e innovativo: studiando Michelangelo e Giulio Romano, deciderà quindi di optare per una versione virtuosistica del canone classico di bellezza, evidenziando quei caratteri che lo trasformeranno in uno degli artisti cardine del Manierismo.

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Parmigianino, La visione di San Gerolamo, 1526-1527, olio su tavola, Londra, National Gallery

Di questo periodo romano è una pala che, fortunatamente, si è salvata dalle distruzioni del sacco di Roma: la pala della Visione di San Gerolamo.

Commissionata al pittore il 3 gennaio 1526 per la chiesa di San Salvatore Lauro, la pala presenta la Vergine col Bambino sospesa in cielo mentre san Giovanni Battista, in primo piano, è colto nell’atto di indicare all’osservatore la sfolgorante apparizione celeste posta alle sue spalle; un terzo personaggio, steso sull’erba e intento a dormire, può essere considerato il testimone della scena : questo personaggio è appunto San Gerolamo.

Questa pala è ricca di riferimenti ad opere di maestri contemporanei: vengono rielaborati spunti di Raffaello e di Correggio, da cui prese l’idea della visione, come anche il motivo del Bambino grandicello “calato” ai piedi della madre, che riecheggia il tipo della Madonna di Bruges di Michelangelo.

Lo stimolante rapporto con la pittura dei grandi maestri non sfocia mai in una banale imitazione ma, tutti gli spunti, vengono sempre filtrati dalla sua sensibilità, che gli permette di giungere al risultato finale dopo essere passato attraverso ad una lunga fase ideativa, sempre graficamente attestata.

Dopo un soggiorno a Bologna (1527- 1530), Parmigianino ritorna nella città natia, dove realizzerà uno dei suoi lavori più celebri, la Madonna dal collo lungo.

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Parmigianino, Madonna dal collo lungo, 1534- 1539, olio su tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi

Eseguita per la cappella di Elena Baiardi Tagliaferri nella chiesa di Santa Maria dei Servi a Parma, questa pala viene collocata nella chiesa ancora incompiuta: sotto un cielo nuvoloso attraversato da bagliori luminosi, una elegante Vergine sta seduta in trono guardando il Bambino dormiente adagiato sulle proprie ginocchia. Sulla sinistra della composizione si accalca un gruppo di angeli apteri (senza ali), che offrono un’urna sulla quale riluceva il riflesso della croce, oggi quasi invisibile, ma nota perché descritta minuziosamente dal Vasari; in lontananza, a destra, ai piedi di un alto colonnato, si allunga la figura di un profeta che distende un rotolo.

Sebbene il contratto di commissione del dipinto prevedesse solamente la Vergine tra i santi Francesco e Gerolamo, l’opera si trasforma progressivamente, attraverso una lunga gestazione grafica, dedita a ricreare artificialmente un ideale di bellezza estrema, fredda ma energica, che risulta irraggiungibile.

Emblematica è la bellezza della Vergine, molto raffinata, che non mostra nessun attributo tradizionale, ma ostenta le sue forme prosperose al di sotto del tessuto che la riveste.

Anche per la Madonna dal collo lungo, Parmigianino guarda a una composizione del Correggio: si tratta di una piccola Madonna col Bambino, dipinta una dozzina di anni prima, in cui compaiono lo stesso gesto della mano destra della Vergine, il colonnato e la figura più piccola di un profeta in secondo piano.

Nelle tavole del Parmigianino dominano una molteplicità di spunti teologici, attinti sia dalla cultura medievale sia da quella contemporanea; così nei suoi dipinti si colgono forti richiami al tema della Passione di Cristo o alla Deposizione. Perfino la colonna e il collo lungo di questa tavola non costituiscono solo spunti formali, ma sono manifestazioni visive delle virtù mariane, alludendo alla “torre d’avorio” spesso riferita alla Madonna perché sinonimo della sua purezza.

Scritto da Malerin 

Le donne di Utamaro

Questa settimana, non per farla apposta, sono stati trattati due articoli dedicati alla rappresentazione della donna nell’arte di due artisti, uno occidentale e uno orientale. Nulla che cade nel ripetitivo visto e considerato che le due rappresentazioni femminili, in Occidente e Oriente, sono totalmente diverse dal punto di vista tecnico e stilistico.
Oggi parlerò con voi delle donne di Utamaro, donne qui intese come soggetti prediletti dell’artista e non amanti.

Kitagawa Utamaro fu un pittore e disegnatore giapponese, considerato uno dei maggiori esponenti del filone dell’ukiyo-e (immagini del mondo fluttuante).
Guardando le sue opere nel complesso, ricche di stampe a colori, illustrazioni e dipinti, appare subito evidente quale sia stato l’aspetto maggiormente indagato, preferito da questo artista giapponese: le donne, ovvero la bellezza femminile, colta nei più variegati atteggiamenti. Tema questo che sarà uno dei più rappresentativi nel filone dell’ukiyo-e.

La Serie delle dodici ore nelle case verdi fu pubblica nel periodo che unanimemente riconosciuto come il migliore dell’intera produzione artistica di Utamaro. Esso si può far iniziare tra il 1792 e il 1793, con la pubblicazione di otto fogli suddivisi in due serie che sembrano essere l’una la continuazione dell’altra, tanto che una delle composizioni compare sia nella prima che nella seconda serie.
Alla prima raccolta, denominata Dieci studi fisionomici di tipi femminili, appartengono cinque fogli, tra cui:

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La seconda raccolta, nota come Dieci classi di fisionomie femminili, fanno parte:

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La scelta di ritrarre le bellezze a mezzo busto, una colorazione delle vesti tenue, il fondo neutro, arricchito da una stesura omogenea di polveri metalliche di mica di tonalità rosata che ben si accorda con la cromia delicata dell’incarnato, sono tutti elementi che fanno di queste composizioni un punto di svolta nella storia della pittura giapponese, sia nella carriera di Utamaro.

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Donna che legge una lettera, Serie delle Dieci classi di fisionomie femminili

In questa stampa policroma, la giovane donna che legge una lettera è una sposa, come indicano le sopracciglia rasate, l’ampia cintura (obi) legata sul davanti e i denti anneriti. Alcuni di questi fattori (denti anneriti e obi sul davanti) caratterizzano anche le cortigiane, ma certo non le sopracciglia rasate.
Questa beltà, la cui pelle, del viso come delle braccia, viene fatta rifulgere dallo sfondo in mica bianco-argenteo, sta avidamente leggendo la lettera che tiene in mano e va ripetendo a voce alta il testo. Lo sguardo fisso, il collo sporto in avanti, il volto leggermente rivolto verso l’alto sembrano indicare uno stato di stupore. Le vesti hanno colori sobri e senza fronzoli, da cui però Utamaro fa sbucare ai polsi il rosso della veste interna, lo stesso delle labbra socchiuse.

cr-kitagawa_utamaro_03Altra stampa, che mi piace particolarmente e che quindi voglio condividere con voi, caratterizzata da una composizione a piramide è Tre beltà dei giorni nostri, le tre più celebri beltà degli anni novanta del Settecento, in cui sono ritratte Naniwaya Okita, in basso a destra, Takashima Ohisa, in basso a sinistra, e infine Tomimoto Toyohina, in alto al centro.
L’individualità dei caratteri è qui affidata ad alcuni particolari del viso delle tre dame, dalla diversa curva dei nasi alle dimensioni della bocca; inoltre segni di riconoscimento inequivocabili sono i fiori di paulonia e primula che compaiono sugli abiti delle tre figure.

Queste sono solo alcune delle stampe realizzate da Utamaro, ma adesso vi mostro anche qualcosa di pittorico. Mentre attendeva alle sue più importanti opere in serie, Utamaro riuscì anche a dedicarsi alla pittura vera e propria, non di preparazione alla stampa.
Le figure femminili rimasero il suo tema preferito anche nei dipinti, elaborati con una grande consapevolezza dei propri mezzi tecnici e un’elegante scelta cromatica.

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Nel dipinto Le tre stelle della Felicità, della Salute e della Longevità (mi scuso in anticipo con la qualità dell’immagine, che non rispecchia fedelmente la qualità dell’originale), la composizione è equilibrata, giocata anche in questo caso da dinamismi piramidali, con il lungo e ampio abito della beltà stante quasi usato per elevare gli altri due personaggi femminili seduti. Non mancano poi punti di introspezione psicologica, a partire dalla tematica scelta, con la giovane dama a simboleggiare la Felicità, la madre con i due bambini a rappresentare la Salute e, infine, la vecchia donna quale emblema della Longevità.
L’opera si presta inoltre a un’ulteriore lettura iconografica, potendo essere interpretata anche come “le tre età della donna”. Ed è un ottimo esempio delle capacità di Utamaro nell’analisi dell’universo femminile.

Altro ritratto efficace è quello di Beltà che si gode la frescura. Contemporaneo del precedente (1794-95), si nota il diverso tipo di commissione: il dipinto era probabilmente destinato al godimento personale dell’acquirente.

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La posa della dama è rilassata e sensuale, mentre grande è il fascino del kimono nero che,  ricadendo sciolto lungo la spalla sinistra, esalta il rosso della sottoveste, altrimenti solo intuito attraverso le magistrali trasparenze del lungo abito corvino.

Ebbene siamo arrivati alla conclusione di questo viaggio, prima di lasciarvi voglio mostrarvi qual è la mia stampa preferita, che in un qualche modo incarna in sé tutti gli elementi sopra citati, un’opera quindi di estrema bellezza e grazia. Un’opera forse, rispetto a quelle precedenti, che sicuramente avrete visto da qualche parte.

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Kitagawa Utamaro. Ohisa della Takashimaya, 1795, formato obam (stampa grande)

Ohisa è alla toilette e, con due specchi, sta controllando sia il volto sia la nuca, una zona eroticamente eccitante in Giappone come in occidente la scollatura.
Sullo stipetto in lacca nera, a destra, col portaspecchio, un piccolo recipiente col rosso per le labbra.
Che si tratti di Ohisa lo si può capire sia dal retro dello specchio che porta il carattere “taka” oltreché uno stemma con tre foglie di quercia in un cerchio che è di frequente associato alla ragazza, sia risolvendo il rebus proposto dalle figure del cartiglio quadrato. Nel cartiglio verticale invece stanno due riferimenti all’età di Ohisa: il primo, indicanti le sere senza luna, cioè verso il diciottesimo, e il secondo, il giorno della grande festa di Asakusa, ugualmente il diciotto.

Scritto da Max

Grazie a tutti!

SPUNTI SULL’ARTE

Prima o poi doveva succedere!!
Vogliamo ringraziarvi per averci seguito e sostenuto tutto il tempo, un traguardo questo molto importante. Tuttavia non ci fermiamo e continueremo, tutti insieme, questo lungo viaggio nell’arte.
Saremo sempre disponibili ad accettare vostre eventuali richieste o, perché no, eventuali collaborazioni 🙂

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 Max & Malerin

Architetture davvero Green

Siamo soliti intendere l’architettura in senso tradizionale, concependola come un insieme di forme rielaborate tramite il cemento, la pietra, l’acciaio o il vetro; ma ci sono altri elementi che concorrono in maniera altrettanto importante nella definizione di un oggetto architettonico, quegli elementi naturali che interagiscono con l’edificio e che spesso ne amplificano le qualità tecniche e formali.
Questi possono essere, ad esempio, la luce o l’acqua che in questo caso non vengono intesi come agenti atmosferici, ma come materiali veri e propri che subiscono una trasposizione nel dato artificiale (se foste interessati, ho trattato questo argomento qui: https://spuntisullarte.wordpress.com/2016/05/15/tadao-ando-e-la-dimensione-naturale/ )

Un altro elemento naturale fondamentale è la vegetazione: le piante, con la loro crescita spontanea o artificiale, possono riuscire a mascherare la struttura dell’edificio, dissimulandola, mentre altre volte costruiscono loro stesse un’originalissima struttura. Voglio allora portare alla vostra attenzione due importanti esempi: uno del primo caso, in cui la vegetazione ricopre una o più parti di un edificio e, uno del secondo caso, dove col solo ausilio delle piante si è riusciti a creare una vera a propria cattedrale naturale.

La fusione totale fra tradizione e natura si può vedere a Parigi: a due passi dalla Tour Eiffel, si trova il più importante museo delle arti e delle civiltà primitive, il Quai Branly.

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Jean Nouvel, Museo Quai Branly, Parigi

L’ambizioso progetto architettonico, che venne affidato a Jean Nouvel, è enfatizzato dal forte nesso fra edificio e giardino. L’edificio principale si presenta come un grande corpo sviluppato in orizzontale, sollevato da terra su pilotis (piccoli pilastri in cemento armato), al di sopra di un giardino rigoglioso ad opera di Gilles Clément.

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Museo Quai Branly visto dal giardino

L’aspetto esterno della struttura sembra comunicare subito la complessità del compito affidato al museo, alla cui funzione di semplice esposizione rimanda il gioco di volumi, colorati e di diverse dimensioni in aggetto, che corrispondono alle vetrine interne. La soluzione architettonica adottata dovrebbe dar forma alle esigenze del museo e, indubbiamente, lo connota come una sorta di grande isola metropolitana.

Nouvel dichiara di essere stato molto attento al luogo in cui si situa la sua architettura, parla addirittura di “poetica della situazione”, in cui ciò che circonda la sua opera è quanto più possibile messo in risonanza e in valore…potremmo quasi dire che egli ha creato una situazione poetica per la sua opera.
Pur autore egli stesso di importanti giardini, qui Nouvel ha coinvolto anche altri soggetti: con paesaggisti famosi come Clément e Blanck ha creato una sorta di micro collezione di piante e fiori che, di notte, si accende in modo suggestivo, sottolineando l’effetto di foresta urbana, grazie anche ai bastoni illuminati sistemati sotto al corpo del museo.
Modificare attraverso gli eventi di carattere luminoso la natura stessa delle architetture è un altro degli obiettivi rivendicati dall’architetto Nouvel.

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Rispetto al giardino, il muro vegetale, che riveste la facciata rivolta verso la Senna, è intimamente connesso all’edificio, ne fa parte in quanto fa adottare sorprendentemente al suo “prato” la dimensione verticale, negando la sua naturale disposizione in piano.

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Museo Quai Branly, particolare del muro vegetale

Si tratta di una dichiarata opera d’arte che scombussola i codici dei materiali generalmente usati nell’operare artistico e si discosta anche dalla comune arte topiaria, la tradizionale creazione di sculture con le piante.
In questa composizione, a opera di Patrick Blanck, si unisce il prestigio tecnologico alla duttilità delle piante, di cui si sottolinea costantemente la poca energia richiesta per vivere a fronte di una grandissima creatività.  

La presenza di questo muro vegetale è soprattutto una forte dichiarazione di sostenibilità a cui è improntata tutta la progettazione del museo: contribuisce sempre alla sostenibilità del complesso un impianto di pannelli fotovoltaici, che riveste le pareti verticali e i tetti, mentre sonde geotermiche nel sottosuolo sfruttano l’inerzia termica del terreno per risparmiare energia per la climatizzazione.

Per chi volesse vedere interamente la struttura del museo, vi lascio qui un link di un video:

Il secondo esempio invece riguarda la Cattedrale vegetale di Giuliano Mauri.

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Giuliano Mauri, Cattedrale vegetale, 2001, Trento, Val Sella

 La Cattedrale è qualcosa di diverso da un’opera architettonica, religiosa o estetica oppure, forse, è tutto ciò ma anche qualcosa in più. La struttura, così grande, serve a custodire e guidare la crescita di ottanta alberi: i rami di potatura, che Mauri utilizza abilmente, sono congiunti in veri e propri pilastri che si sollevano fino a dodici metri, incurvandosi in alto e poi ad ogiva per altri tre metri. I pilastri, disposti a coppie, disegnano delle arcate come volte di una navata gotica.

Credere nel sogno di Giuliano Mauri è una necessità: immaginare un luogo di culto e di aggregazione dove esiste solo la natura con la sua forza e i suoi silenzi, poter contemplare il cielo e pregare ognuno a proprio modo ti permette interamente di entrare nell’opera.

3mauriNel lavoro di Mauri c’è gioia, c’è silenzio e molta laica religiosità; c’è voglia di fare, di lasciare un segno che ognuno di noi potrà leggere, potrà decifrare e che potrà condividere.
La Cattedrale vegetale rievoca in noi molte emozioni, incontra qualche nostro bisogno indefinito, ma lo fa con leggerezza, lasciandoci spazi per guardarci attraverso, come le sue alte e possenti colonne. Riesce anche ad intimidirci con le se dimensioni: l’altezza e la monumentalità rievocano grandi fatiche e grandi invenzioni, ricordano le grandi aspirazioni architettoniche e religiose degli uomini che, in ogni periodo della loro storia, hanno provato a sfiorare i loro limiti e le loro possibilità, rivolgendosi alle loro divinità, cercando di raggiungerle con una preghiera sussurrata.

Citando Giuliano Mauri “un’opera d’arte riempe sempre un vuoto nell’anima“.

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Scritto da Malerin

Una tomba per le lucciole

Ecco il secondo articolo della Rubrica “Fuori tema” dedicato all’animazione giapponese (anime) e in particolar modo a quella dello Studio Ghibli.
Studio Ghibli perché credo sia il più conosciuto qui in Italia, il più apprezzato (a livello di contenuto e grafico) e il più ricercato.  Spero che abbiate tutti quanti visto, almeno qualche volta, alcuni dei loro film d’animazione; usciti, anche se per poco, al cinema.

In Occidente esiste da sempre, purtroppo, un pregiudizio molto forte nei confronti dell’animazione, un genere che spesso si è portati a ritenere, in modo affrettato e superficiale, come rivolto esclusivamente ai più piccoli. Se ci pensate è un cosa al quanto triste, perché se visionati uno ad uno, questi hanno degli insegnamenti molto profondi, che, ahimè, molti adulti hanno dimenticato o sono del tutto ignari.
Chi è di quest’idea farebbe bene a recuperare al più presto “Una tomba per le lucciole” di Isao Takahata (cofondatore dello Studio Ghibli nel 1985 insieme ad Hayao Miyazaki).
La scelta di questo film d’animazione, tra i tanti realizzati dallo Studio Ghibli, è ricaduta su questo perché credo che sia il più rivelatore ed evidente a livello di insegnamenti e a livello emotivo.

  • Ma vediamo un po’ più nel dettaglio questo film (ATTENZIONE SPOILER!!)

Il regista sceglie uno stile fortemente poetico ma  al contempo ancorato alla realtà, per rappresentare tutto l’orrore della guerra.
Il film, tratto dall’omonimo romanzo semi-autobiografico di Akiyuki Nosaka, è ambientato nella città di Kobe agli sgoccioli della seconda guerra mondiale.
Siamo nel giugno del 1945, con la popolazione giapponese sottoposta a continui ed estenuanti bombardamenti da parte dell’aviazione americana. Durante uno di questi, la madre del giovane Seita e della sorellina Setsuko viene ferita mortalmente, mentre il loro padre si trova lontano, impegnato come ufficiale nella Marina imperiale giapponese.
I due giovanissimi protagonisti vengono così accolti in casa di alcuni parenti, ma ben presto devono imparare a cavarsela da soli, per cercare di sopravvivere in mezzo a mille difficoltà, alla cronica mancanza di cibo e ai bombardamenti che proseguono incessanti, incuranti delle vite umane spezzate.
ImmagineNon era certo un’impresa semplice rappresentare tutto l’orrore e la follia della guerra attraverso un lungometraggio animato.
Per riuscirci, Takahata ricorre a una precisa cifra stilistica che alterna un crudo realismo a momenti toccanti e poetici di grande intensità, come nella scena in cui Seita e Setsuko catturano alcune lucciole per illuminare l’antro della caverna in cui si sono rifugiati.

Il regista dimostra tutta la sua maturità e maestria nel mantenersi il più possibile sobrio e asciutto nonostante il tema trattato, senza voler indurre a tutti i costi alla lacrima facile.
In Una Tomba per le lucciole emerge la vera natura umana che in tempo di guerra viene spogliata da ipocrisie e falsità per mostrare il suo lato peggiore fatto di crudeltà, egoismo e indifferenza.
cinema-tomba-per-le-lucciole-04Solo i bambini, anime pure e incontaminate, si salvano da questo scenario desolante, misero e meschino conservando, nonostante tutto, la loro voglia di vivere, ridere e giocare. Davvero ispirato e struggente il modo in cui Takahata porta sullo schermo il forte legame che unisce Seita e Setsuko, col primo che si dimostra fino alla fine un fratello maggiore dall’ammirevole e ostinato istinto protettivo nei confronti della sorellina. È un ragazzo costretto a crescere troppo in fretta, con una forte dignità messa a dura prova dal tragico scenario che lo circonda. Una Tomba per le lucciole è un film di rara bellezza, capace di sconvolgere totalmente le nostre coscienze e di ricordarci ancora una volta l’assurdità di ogni guerra e il pesante carico di morte e distruzione che si porta dietro.

Un film d’animazione giustamente privo di un finale consolatorio, probabilmente non adatto ai più piccoli ma rivolto a un pubblico adulto e a ragazzi che possano comprendere il nobile messaggio contenuto in esso, per sensibilizzarli da subito alla condanna di tutte le guerre.
Non è certo casuale, in quest’ottica, che i protagonisti della vicenda siano giovanissimi, come avviene nella stragrande maggioranza dei film prodotti in questi quasi trent’anni di attività dallo Studio Ghibli, rinomato, ammirato e stimato a livello internazionale.

  • Considerazioni conclusive:

Un altro aspetto interessante, essendo questo un film altamente realistico, è quello di venire a contatto con una realtà del tutto sconosciuta o poco trattata, che è quella, appunto, della vita dei civili giapponesi sotto questi ripetuti bombardamenti.
Vuoi per il forte realismo, vuoi per la crudeltà del contesto e il senso dell’abbandono, questo film è altamente commovente: è difficile farmi piangere e commuovere, però in questo caso….
Che dire?? Se non lo avete visto, vedetelo!! Se lo avete visto, rivedetelo!!

Vi lascio qui di seguito il link dello streaming del film ad alta risoluzione

http://www.guardarefilm.tv/streaming-film/4444-una-tomba-per-le-lucciole-1988.html

Scritto da Max