L’iconografia perduta dei Serafini

Nell’articolo di oggi affronterò un tema religioso, perché la maggior parte della storia dell’arte medievale e moderna, come ben saprete, tratta temi religiosi. Non si tratta esattamente di un tema religioso, bensì di un soggetto che viene menzionato una sola volta nella Bibbia, ma che è molto rappresentato nell’arte medievale. Sto parlando dei Serafini, appartenenti alla gerarchia degli angeli.

Ebbene anche gli angeli, secondo gli studi ebraici e poi cristiani, sono classificati all’interno di una gerarchia. Le fonti bibliche non definiscono le teorie degli angeli in nessun punto preciso, ma citano in passi diversi quegli angeli dalla differente funzione, che vennero più tardi suddivisi in nove cari, detti anche gerarchie, in seguito allo studio dei Padri della Chiesa siriaci.
Solo alla fine del IV secolo sembra che si trovi un pensiero strutturato chiaramente che verrà accolto da Dionigi, lo pseudo Areopagita, nello scritto De coelesti hierarchia all’inizio del VI secolo.
Si definiscono nove ordini organizzati in tre triadi in cui la gerarchia è data dal grado della partecipazione intellettuale ai misteri divini: i più vicini a Dio sono i serafini nella gerarchia più in alto, poi ci sono i cherubini e i Troni, cui seguono Dominazioni, Potestà e Virtù, e infine Principati, Arcangeli e Angeli.
Il pensiero dello pseudo Areopagita sarà in seguito ripreso da Gregorio Magno e diverrà corrente per tutto il Medioevo, ma dal XV secolo gli umanisti metteranno in dubbio tali teorie e di conseguenza si andrà perdendo una distinzione iconografica.

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Coppo di Marcovaldo, Cristo e le gerarchie angeliche, XIII secolo, Firenze cupola del Battistero

In tale opera è ben evidente la rappresentazione di tale gerarchia: la parte più vicina alla cupola mostra una serie di cornici con vivaci decorazioni fitomorfe (elemento decorativo che ha l’aspetto di una pianta o di un organismo vegetale), alle quali segue una fascia con girali e rappresentazioni figurate ritmate che somigliano a quelle della ruota nell’abside: una sorta di vaso composto da elementi vegetali di fantasia corrisponde a ogni spigolo, dal quale escono due racemi che creano grandi volute e un tralcio centrale.
L’anello successivo è occupato dalla rappresentazione, secondo lo pseudo Dionigi, delle gerarchie angeliche, la cui identificazione è aiutata dalle didascalie: al centro Cristo benedicente, col libro aperto in mano, è affiancato da Serafini (rossi) e Cherubini (blu), i più prossimi a lui e gli unici con tre paia di ali, ai quali seguono alternativamente a sinistra e a destra, separate da colonnine, due coppie dei vari tipi di angeli ovvero: Troni, Dominazioni, Virtù, Podestà, Principati, Arcangeli e infine gli Angeli.

Analizziamo ora la figura del Serafino  aiutandoci anche con l’iconografia che è stata elabora e diffusa nel Medioevo.
Secondo la collocazione che venne fatta fra le varie citazioni di fonti canoniche e apocrife, i Serafini sono considerati gli angeli che stanno al cospetto di Dio.
L’unico passo della Bibbia che si riferisce ai Serafini è nel libro di Isaia (6:2-7), quando il profeta riporta la visione della sua chiamata nel tempio di Gerusalemme:

“Attorno a lui stavano dei serafini, ognuno aveva sei ali; con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava”

Da tale descrizione derivò da parte dello pseudo Dionigi l’identificazione dei Serafini con la prima delle teorie angeliche, legando la loro natura di ardenti per il fuoco d’amore alla luce e alla purezza. Fu difficile trarre da questa definizione una precisa raffigurazione, che, in origine, pare derivare da preesistenti tipologie di creature spirituali note in Siria (I millennio a. C.), o anche dall’iconografia assiro-babilonese dalla quale è noto che possano provenire al mondo giudaico-cristiano le prime raffigurazioni correlate agli angeli.

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I Serafini vennero rappresentati preferibilmente con sei ali e di colore rosso, segno di amore ardente, che accompagnano Dio, come è ben visibile in questa miniatura tratta dal libro Petites Heures di Jean de Berry.
Col tempo la loro rappresentazione si confuse con l’iconografia del cherubino, quando, passato il Medioevo si perse la complessa distinzione iconografica fra le teorie angeliche.

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Vediamo altre opere in cui compaiono queste figure angeliche: in questo caso ci troviamo all’interno della chiesa di Panagia Parigoritissa (Consolatrice) ad Arta e quello che state osservando, un particolare, è  mosaico, in cui sono rappresentati gli apostoli, con i lineamenti del volto illuminati da luce radente realizzata per mezzo di sottili tessere di diverso colore, alternati serafini e cherubini.

Seraphim-in-Hagia-Sophia-pendentiveQuest’altra immagine si trova invece a Santa Sofia, Istanbul in Turchia. Già in questo caso si comincia a perdere l’iconografia orinale del Serafino, che preveda le ali di colore rosso fuoco. Tuttavia rimangono ancora le tre paia di ali sua caratteristica.

Ecco vediamo anche qualcosa di più contemporaneo: si tratta di un dipinto di Viktor Vasnersov del 1901, in cui viene raffigurata Maria in trono, affiancata da due Serafini, volti a simboleggiare la loro alta carica nella gerarchia degli angeli. Anche in questo caso si è perso il colore rosso delle ali.

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Le opere che vi mostrerò adesso riguardano sempre le figure dei Serafini ma totalmente differenti dall’iconografia originale, vuoi per pigrizia dell’artista nel rappresentare le moltitudini ali dell’angelo, vuoi per una poca approfondita conoscenza sulla stessa iconografia.

In quest’opera (vedi sotto), il Giudizio Universale di Giotto, è ben evidente la gerarchia degli angeli: nel particolare 1, ci sono Angeli, Arcangeli, Principati e Potestà siedono alla sinistra di Cristo; nel particolare 3, invece, ci sono Virtù, Dominazioni, Troni e Cherubini, ciascuno guidato dal rispettivo vessillifero e siedono alla destra di Cristo. Ultimo particolare, il n° 2, occupa la posizione centrale dell’affresco e si tratta della figura di Cristo affiancato dai suoi apostoli.
Nove schiere di angeli divisi in due gruppi simmetrici e in file che scalano di profondità.
In questo caso, addirittura, si viene a perdere l’iconografia del Serafino, non si riesce a distinguere dalla folta schiera di angeli.

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Concludo con un’altra opera contemporanea, questa volta di un autore conosciuto, si tratta del Sogno di Giacobbe di Marc Chagall.
In questo caso, non sto a descrivervi l’opera, nel lato destro  (la parte blu per intenderci) è presente la figura del Serafino che schiarisce la composizione portando la luce divina. Abbiamo dunque un recupero di una antica iconografia, ma presenta solo due paia di ali.

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Marc Chagall, Sogno di Giacobbe, 1966, Nizza

Abbiamo visto dunque come l’iconografia del Serafino si è andata via via perdendo negli anni a causa degli umanisti che misero in dubbio le teorie antiche. Questo provocò ovviamente sempre più confusione tra le diverse iconografie degli angeli, arrivando anche a esempi di Serafini raffigurati come Cherubini.

Scritto da Max

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Ritratto di un Imperatore

Ho deciso di dedicare l’articolo di oggi a uno degli uomini di stato più importanti, il più longevo e il più saggio di tutti i tempi: Ottaviano Augusto.

Fondatore dell’Impero romano, nonché universalmente riconosciuto come primo imperatore, con le sue azioni Augusto riuscì a mettere fine alla crisi della repubblica, che si presentava ormai inadeguata a reggere e guidare lo stato, sostituendola con un regime monarchico stabilizzato sull’esercito e sul dominio delle province. Continuò quindi l’operato di Giulio Cesare, anche se Augusto volle evitare ogni aspetto dittatoriale, giustificando il suo regime dal punto di vista repubblicano.
aaf61d29691f597f76683ac1270970f4Oltre alla soluzione costituzionale, l’opera veramente grandiosa di Augusto fu la realizzazione di un impero unitario, dove la collaborazione armoniosa di vari elementi eterogenei, che sottostavano alla sua forza regolatrice, garantiva il benessere e la pace, soddisfacendo l’antico ideale dell’abolizione delle guerre tra componenti della stessa civiltà.

Il prozio e padre adottivo Giulio Cesare fu uno stratega e un politico più geniale di lui e Marco Antonio, che lui sconfisse nella battaglia navale di Azio, fu certamente un generale più valoroso e carismatico, ma è stato Ottaviano Augusto a costruire l’impero, governando con opportunismo e dedizione.

Gli storici si chiedono quale sia stato il segreto del suo lungo potere: manovrò con successo tra la vecchia aristocrazia senatoria, i nuovi ceti arricchiti, l’esercito e la plebe in quelle che potrebbero essere definite come larghe intese ante litteram, dedicandosi totalmente al bene dello stato, rafforzando quindi i confini, istituendo colonie e municipi e riformando l’esercito.
Nonostante l’apparato propagandistico, affidato a professionisti come Mecenate, Orazio e Ovidio, non si montò la testa: promosse la divinizzazione di Giulio Cesare, ma per se si accontentò della carica di pontifex maximus (pontefice massimo), che accolse solo quando morì Lepido che, a quel tempo, la deteneva. Fu anche imperator, termine che all’epoca indicava il comandante dell’esercito ma, che con lui cambiò di significato, designando il potere supremo.

Nelle sue memorie, le Res Gestae, scrisse:

“[…] restaurai il Campidoglio e il Teatro di Pompeo senza farvi scrivere il mio nome […]”

Quindi, durante il suo lungo comando, Roma fu abbellita di monumenti e templi; ma vediamo ora come la figura di Ottaviano Augusto venne rappresentata nell’arte di quel tempo.

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Ritratto di Ottaviano Augusto, 35- 30 a. C., Roma, Museo capitolino

Nella complessa serie dei ritratti di Augusto, questa testa del Museo Capitolino rappresenta una delle tappe più antiche e più indicative delle concezioni artistiche all’epoca del secondo triumvirato.

Ottaviano viene qui rappresentato giovane, con la testa piegata verso sinistra e con la caratteristica torsione del collo dei dinasti ellenistici, fissando lo sguardo intento davanti a sé. La chioma è trattata a ciocche in movimento agitato, in cui a stento si riconosce la notissima ciocca a tenaglia sulla fronte, mentre la fronte e le goti sono lasciate lisce.
Si riconosce in questa testa l’intento di rifarsi a modelli ellenistici del ritratto dinastico, rappresentando Ottaviano come un giovane travagliato, con le guance scavate, i tratti affilati e gli occhi infossati, come venne rappresentato anche in una serie di monete coniate dopo la vittoria della battaglia di Azio.

Altra statua, sicuramente più tarda, è l’Augusto di Prima Porta.

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Augusto di Prima Porta, I secolo d. C., Musei Vaticani

Questa statua, rinvenuta nella villa suburbana di Livia sulla via Flaminia, può essere considerata il prototipo delle statue loricate (la lorica è la corazza, l’armatura) imperiali romane prodotte fino al tardo impero.

La figura dell’imperatore è colta nell’atto di compiere il gesto di richiedere il silenzio per un’adlocutio, ossia un discorso formale di fronte alle truppe: è vestita di una corazza riccamente adorna, sotto la quale si intravede una corta tunica militare, mentre il paludamentum (un tipo di mantello che veniva indossato dai generali romani quando comandavano l’esercito) avvolge i fianchi di Augusto per ricadere sul braccio ripiegato, la cui mano stringe una lancia. Il capo e i piedi sono nudi e la gamba destra è sorretta da un puntello figurato a modi  di amorino su un delfino.

I rilievi della corazza, invece, hanno una particolare importanza per il momento storico dell’impero augusteo e per tutta l’ideologia del suo principato, con un’elaborata simbologia che nei decenni successivi verrà sviluppata in opere di propaganda.

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Augusto di Prima Porta, particolare della lorica

In alto vi è la personificazione del Cielo sotto il quale vola la quadriga del Sole, preceduta dall’Aurora e da Phosphorus; mentre nella parte più bassa della corazza compare Tellus, la Terra, semisdraiata tra due putti e inquadrata da Apollo su un grifone e Diana su una cerva. La parte centrale è occupata dalla scena della restituzione delle insegne di Crasso da parte del re Fraate di Parthia ad un generale romano accompagnato da un cane, nel quale possiamo riconoscere quasi certamente Tiberio, mentre ai lati due personificazioni di province vinte, la Germania e la Pannonia, pacificate da Tiberio tra il 12 e l’8 a. C.

La statua sembrerebbe concepita nell’8 a. C. come manifesto dei consueti luoghi comuni di Augusto in sostegno di Tiberio e, presumibilmente, in polemica contro le stelle nascenti di Gaio e Lucio Cesare.
Tutto l’interesse è concentrato sui rilievi della corazza, eseguiti con la consueta perizia propria degli artisti neoattici.

Augusto compare anche nei rilievi dei lati lunghi dell’Ara Pacis, l’altare che venne votato dal Senato di Roma per celebrare la Pax Augustea dopo il ritorno dell’imperatore dalla Spagna e dalla Gallia.

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Rivieli dell’Ara Pacis (particolare della processione ufficiale), 13- 9 a. C., Roma

In questi due fregi viene rappresentata una sorta di processione: una ufficiale con i sacerdoti e una semiufficiale con la famiglia di Augusto, originariamente unitaria ma successivamente divisa in quattro parti.
Nei rilievi della processione ufficiale, la prima parte è assai guasta ma, in essa, si riescono ancora a riconoscere dei littori che, in numero di dodici, dovevano aprire il corteo; si riconosce anche un camillo con la cassetta sacra del collegio ponteficale, il lictor proximus che, secondo il rito, doveva camminare all’indietro per non volgere le spalle al magistrato e al sommo sacerdote. Seguono dei togati in cui vanno riconosciuti i pontefici e, al centro, come pontefex maximus, Augusto, che avanza con il capo velato rivolto verso lo spettatore. La parte ufficiale viene chiusa da quattro personaggi con il caratteristico copricapo apicato.

A questo punto si osserva uno stacco netto e inizia la parte dedicata alla famiglia imperiale, aperta dalla figura di Agrippa, erede principale nella linea dinastica e deceduto nel marzo del 12 a. C.

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Rilievi dell’Ara Pacis (particolare della famiglia imperiale), 13- 9 a. C., Roma

Alla toga di Agrippa si aggrappa un fanciullo, probabilmente il nipote e figlio adottivo di Augusto, Gaio Cesare; quindi è la volta di Livia con il capo velato, seguita dal figlio Tiberio, un personaggio sconosciuto e poi è la volta del figlio minore di Livia, Druso, in abiti militari con la moglie Antonia Minore e il figlioletto Germanico vestito di toga. L’ultimo gruppetto è quello guidato da una donna severamente abbigliata, che posa la mano sulla spalla di un altro fanciullo togato ed è accompagnata da un fanciullo, una fanciulla e un altro togato: molto probabilmente è Antonia Minore con il marito Domizio Enobarbo.

L’ultima che voglio ricordare è il ritratto di Augusto di via Labicana.

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Ritratto di Augusto, I sec. a. C.- I sec. d. C., Roma, Museo nazionale romano

Proveniente dalle pendici del Colle Oppio, questa statua è la copia di età tiberiana di un ritratto di Augusto eseguito alla fine del I secolo a. C. (o agli inizi del I secolo d. C.). Egli è qui rappresentato a capite velato, verosimilmente come pontefice massimo, rivestito di toga in atto di effettuare un sacrificio (nella mano destra, mancante, vi era forse una patera).

La testa, eseguita a parte e successivamente inserita nel corpo, mostra le fattezze di un uomo stanco e ammalato, con il volto affilato e segnato dalla fatica; tuttavia, molto di questo effetto di lontananza psicologica è dovuto alla cosciente opera di sublimazione classicista.

Anche il corpo appare privo di ogni evidenza plastica, tutto percorso dalle profondissime pieghe della toga che sottolineano la superficie a scapito del volume; nel volto si noterà il trattamento metallico e disegnativo dei capelli.

In conclusione si può dire che molte furono le rappresentazioni dell’imperatore Augusto, un uomo il cui destino aveva riservato il governo del mondo. Sotto il suo controllo, l’impero visse un periodo di splendore e di benessere, con un rinnovamento religioso, un’intensa attività culturale e una ricchezza economica che contagiarono tutto il Mediterraneo.

Scritto da Malerin

Due violoncellisti Rock n’roll

Per l’articolo di oggi ho deciso, ancora una volta, di parlare di musica… lo so che potrei risultare un po’ fissata, ma l’11 maggio ho avuto l’occasione e l’opportunità di assistere ad un meraviglioso concerto per festeggiare i cinque anni di attività di un portentoso duo, i 2Cellos e, perché non cogliere subito la palla al balzo per scriverci un bell’articolo?

Si parla spesso di commistione tra musica classica e rock, generi che apparentemente sono incompatibili e agli antipodi ma, chi ancora lo pensa, non ha mai avuto la possibilità di ascoltare questo duo che, con la propria musica, ha creato un perfetto connubio in grado di attirare un pubblico di diversa età e formazione.

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Luka Sulic (a sinistra) e Stjepan Hauser (a destra)

Luka Šulić e Stjepan Hauser provengono entrambi dal panorama musicale classico: Stjepan è stato uno degli ultimi allievi di Rostropovich, meritandosi il soprannome di “mago del violoncello”, mentre Luka ha vinto numerosi premi internazionali. Nel 2011 decisero di fondare questo duo, arrangiando brani di musica contemporanea in chiave moderna utilizzando, nelle loro esecuzioni, solamente i propri violoncelli. La loro fama incominciò però quando iniziarono a postare qualche video su YouTube: con le loro versioni di Smooth Criminal e di Thunderstruck riuscirono a raggiungere un numero di visualizzazioni tale da far invidia ad una pop star.

In poco tempo, le corde dei loro strumenti sono diventate le protagoniste del web, come anche la loro capacità di trasformare le sonorità di quei due strumenti tradizionali in qualcosa di assolutamente contemporaneo.

I 2Cellos sono, in fondo, due giovani di quell’Europa balcanica che da un po’ di anni sta ritornando sulla scena artistica internazionale e, rappresentano la voglia di dimostrare, attraverso la musica, il proprio merito. Non a caso, a notarli e a volerli nei propri concerti figurano Elton John, Lang Lang, Steve vai, Zucchero, Andrea Bocelli e tanti altri.

L’11 maggio, per l’appunto, hanno deciso di festeggiare il loro quinto anniversario con un concerto nell’Arena di Verona, riuscendo ottenere un sold out nell’unica data italiana.

Ad aprire la serata, però, altri due artisti d’eccezione: prima Remo Anzovino, uno degli esponenti più affermati e innovativi della musica strumentale contemporanea, che ha all’attivo quattro album e un recente progetto dedicato alla figura di Pier Paolo Pasolini, con la collaborazione di numerosi artisti di fama; seguito poi dal songwriter Lon Loman, uno fra i cantautori più promettenti dei Balcani che, sull’onda emotiva del rock-blues ha incominciato a scrivere la propria musica e a esibirsi in alcuni dei concerti europei dei 2Cellos.

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Stjepan Hauser e Luka Sulic durante il concerto dell’Arena di Verona del 11 maggio 2016

Poco dopo le 21 si materializzano sul palco Luka e Stjepan, accolti dal boato assordante di 12.000 spettatori riuniti nell’Arena. Questi due ragazzi appaiono diversi sia per carattere sia per il look: camicia nera e violoncello bianco per il primo, il più timido e riservato; camicia bianca e violoncello nero per Stjepan, estroso e pazzo, sempre pronto a far battute.

La scaletta del “5th Anniversary Special Concert” inizia con il pianissimo e le corde, che i due violoncellisti toccano, sono quelle dell’emozione più profonda.
Il concerto prende il via con le ariose atmosfere classiche di Oblivion di Astor Piazzolla, di Gabriel’s Oboe di Ennio Morricone e di Where the streets have no name degli U2; per poi prendere la parola Luka per affermare:

“Buona sera Verona e buona sera Italia. Grazie per essere venuti: è il nostro quinto anniversario e siamo in questa Arena bellissima. In questo concerto potete fare quello che volete: cantare, saltare, ballare e flirtare con chi avete vicino. Non è un concerto normale, quindi mettetevi comodi: per voi abbiamo bellissime canzoni”.

13230248_380226305485839_2151866262362155787_nIl filo dell’emozione porta alla morbidezza di Viva la Vida dei Coldplay, a Shape of my heart di Sting  e Resistance dei Muse, risvegliando il pubblico con questa scintilla di rock pronta a prendere fuoco. Regalano grandi emozioni le intense interpretazioni di With or without you degi U2, interpolata insieme a Con te partirò di Andrea Bocelli, e di Human nature di Michael Jackson. Ed è proprio con uno dei brani del Re del Pop, la trascinante Smooth Criminal, primo cliccatissimo successo dei 2Cellos su YouTube, che inizia la festa sugli spalti, con il pubblico che balla e scandisce il ritmo con gli applausi.

Welcome to the jungle dei Guns N’ Roses fa scattare la prima standing ovation, mentre con l’esplosiva Thunderstruck degli AC/DC fa il suo ingresso il batterista Dusan Kranjc, piccolo di statura ma decisamente potente, che conferisce un’impronta hard rock al concerto.
Dopo il successo di Smooth Criminal, i due violoncellisti ritornano a cimentarsi con il pop senza confini di Michael Jackson, in un’eccellente versione di They don’t care about us, che mantiene intatta la sua componente percussiva, mentre la linea melodica viene valorizzata dal violoncello.

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Stjepan Hauser durante l’esecuzione di Highway to Hell

Il concerto si chiude con un poker d’assi rock che toglie i freni inibitori a tutto il pubblico, ormai tutto in piedi a ballare: prima Smells like teen spirit dei Nirvana e poi You shook me all night long e Highway to hell degli AC/DC, con Stjepan che, saltando per tutto il palco con il violoncello, indossa un paio di corna da diavolo imitando Angus Young; infine Satisfaction dei Rolling Stones che da il via ad una lunga serie di applausi.

Da qui inizia la lunga serie di bis!

Il primo viene inaugurato dal Guglielmo Tell di Rossini che si trasforma improvvisamente in The trooper degli Iron Maiden, dimostrando la loro capacità di simulare con il loro violoncello la chitarra elettrica: un brano, quindi, che rappresenta perfettamente l’idea musicale dei 2Cellos, in bilico fra la classica e il rock. Luka e Stjepan arrivano anche ad interpretare i due brani più amati di sempre: Whole lotta love dei Led Zeppelin e Back in Black degli AC/DC.

La chiusura è invece totalmente classica, con Air on a G string di Joahnn Sebastian Bach, che dimostra tutte le loro straordinarie doti tecniche dovute agli anni di studio del repertorio classico.

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Il pubblico però non era ancora sazio: i 2Cellos decidono quindi di dedicarci la canzone dance contemporanea Wake me up di Avicii e We found love di Calvin Harris, rese ancora più sconvolgenti da una pioggia di coriandoli dorati lanciati in aria.
Con l’ultima canzone, Fields of gold di Sting, parte l’applauso interminabile per salutare i due eccellenti performer, che per due ore ci hanno emozionato senza mai una pausa o un calo di tensione.

Ecco qui un po’ di foto di questo straordinario ed emozionante concerto!

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Vi invito inoltre a farvi un’idea ascoltando qualche loro canzone su Youtube, così che possiate provare, almeno in parte, le stesse mie sensazioni.

Scritto da Malerin

La Fantasia Surrealista

“Il Surrealismo è la magica sorpresa di trovare un leone nell’armadio dove si voleva prendere una camicia”
(Frida Kahlo, 1939)

Come avrete intuito, oggi tratterò uno dei fenomeni più noti di tutto il Novecento: il Surrealismo. Al pari di tante altre avanguardie, anche i surrealisti si sono cimentati in ogni forma artistica, dal teatro alla poesia, dalla letteratura alla musica, fino al cinema. Quindi possiamo subito dire che questa è un’avanguardia che travalica i confini dei generi artistici, ormai rigidamente definiti dall’Accademia e dalla tradizione, diventando una poetica che ha, persino, travalicato il fenomeno stesso, superando la realtà nazionale per cui era nato.

Il Surrealismo è subentrato anche nel linguaggio quotidiano e comune: Guillaume Apollinaire fu il primo a utilizzare il termine surreale intendendolo come sur naturalisme, ossia qualcosa che sta al di là del naturale e del reale e, quindi, surreale è qualcosa che sta affianco o dietro a tutto ciò che viene imposto dalla coscienza.

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André Breton, Manifesto surrealista (1924)

Nel “Manifesto del Surrealismo” (1924) André Breton, uno dei più noti esponenti nonché fondatore del movimento, definisce il Surrealismo come “automatismo psichico puro, mediante il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per iscritto o in altri modi, il funzionamento reale del pensiero”.
Questo movimento è dunque il tentativo di esprimere l’io interiore in piena libertà senza l’intervento della ragione che ci condiziona e ci frena, obbligandoci a reprimere i nostri istinti e i nostri sentimenti, per seppellirli nel profondo di noi stessi.

Breton arriva anche a elencare tutti quegli elementi, come la fantasia e l’immaginazione, che danno libero sfogo al nostro inconscio permettendoci di vivere una sorta di sogno, dove le immagini si susseguono senza un legame apparente rivelando la nostra realtà più recondita. Tuttavia, il Surrealismo non si limita a rappresentare il sogno ma cerca, piuttosto, di scoprire il meccanismo con il quale opera l’inconscio, mettendo a nudo la nostra interiorità. Insomma, è una sintesi e un’accentuarsi di tutti quegli elementi che erano già presenti nel Dadaismo ma che, con Breton, diventano anche politicizzati.

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André Breton, Cadavre Exquis, 1929

Come vediamo nell’opera Cadavre Exquis di Breton, è proprio attraverso i meccanismi dell’inconscio che l’immagine deve scaturire, sia che essa sia poetica o che sia visiva. Questa è appunto una somma, una fusione o il risultato di elementi incongrui tra di loro che, gli artisti hanno realizzato separatamente a più mani e poi assemblato successivamente.

Questa analisi dell’inconscio in campo artistico ha fatto nascere un dibattito sulla psicologia dell’arte: secondo alcuni l’opera può riflettere l’atteggiamento personale dell’artista o dell’individuo, con le sue angosce e le sue passioni; mentre secondo altri, l’opera è qualcosa di autonomo che fa comunque parte di un inconscio collettivo che si raccorda ad un contesto sociale, politico, economico e storico. È stato quindi il Surrealismo a dare l’avvio a questa apertura mentale nei confronti dell’opera d’arte.

Tra i principali surrealisti possiamo ricordare Man Ray, Joan Mirò, René Magritte, Max Ernst e Salvador Dalì. Si tratta di artisti molto differenti tra di loro ma raggruppabili in due filoni: quelli che utilizzano immagini tratte dalla realtà quotidiana o, comunque, realistiche e quelli che giungono ai limiti delle forme astratte, seguendo una scelta istintiva.

L’americano Man Ray è forse più conosciuto per il suo periodo Dada che per quello surrealista. Fotografo di professione, Man Ray ha sperimentato anche con la pittura, ma i suoi più importanti lavori surrealisti sono le Rayografie.

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La tecnica del fotogramma consiste nell’esporre oggetti a contatto con del materiale sensibile, di solito della carta fotografica: in pratica, si ottengono delle fotografie senza fare uso di una fotocamera. Alcune delle sue Rayografie possono sembrare delle vere e proprie radiografie ma, in questo caso, i raggi X non centrano nulla poiché la carta viene impressa appoggiando direttamente gli oggetti sull’emulsione e, successivamente, esposti alla luce di una normale lampadina.

La pittura di Joan Mirò invece nasce spontaneamente da uno stato di grazia che gli permette di immaginare forme, accostarle, colorarle con quella fantasia che è propria dei bambini.

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Joan Mirò, Carnevale di Arlecchino, 1924-1925, olio su tela, Buffalo, Albright- Knox Art Gallery

Nel Carnevale di Arlecchino la realtà è ancora riconoscibile anche se in maniera frammentaria e fluttuante in una dimensione che è irreale, popolata da fantasmi e figure nate dall’inconscio del pittore. Non si tratta di oggetti reali combinati al di fuori del loro ambiente, non è l’incontro casuale di oggetti stravaganti.
L’arte di Mirò è sempre serena e gioiosa; si incrinerà solo in occasione dei drammatici eventi vissuti in Europa negli anni ’30.

Per quanto riguarda René Magritte, bisogna ricordare fin da subito che era un artista belga e, tipico delle Fiandre, è la forte tradizione della rappresentazione fantastica dei sogni e degli incubi. Oltre a questa tradizione, Magritte prenderà spunto anche dalla pittura metafisica con la differenza che, mentre in De Chirico l’inquietudine nasce dall’accostamento di oggetti comuni o anche “storici” (statue o muse ad esempio), Magritte preferisce le cose banali di tutti i giorni e, i suoi personaggi sono convenzionalmente borghesi, con bombetta, abito scuro, camicia e cravatta.

La sua pittura precisa e meticolosa gli permette di creare una realtà più reale del reale, quindi surreale.

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René Magritte, Le trahison des images, 1928-1929, olio su tela, Los Angeles, Los Angeles County Museum Of Art

Il rapporto tra linguaggio e immagine, ovvero tra rappresentazioni logiche e analogiche, è un tema sul quale Magritte gioca con grande ironia e intelligenza.
In questo caso, guardando l’immagine di una pipa e leggendo la scritta sottostante che dice “questa non è una pipa”, si è portati a chiedersi che cosa dovrebbe essere l’oggetto. L’inganno si svela se si riflette sul fatto che si sta guardando solo un’immagine, non l’oggetto reale che noi chiamiamo pipa. Magritte, anche in questo caso, tende a giocare con la confusione tra realtà e rappresentazione, per portarci a riflettere, anche non coscientemente, sui due termini.

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Max Ernst, Matrimonio degli uccelli, 1925

Max Ernst, invece, prima si avvicinò alle teorie artistiche del Die Brucke e del Blaue Reiter, per poi adottare tutte le tematiche tipicamente dada e surrealiste, animando le sue opere con lo spirito assurdo e con la sua passione per il gioco, mettendo insieme elementi diversi ma spiritosi. Ernst è stato un grandissimo pittore e la qualità eccezionale delle sue opere si nota nelle sue sperimentazione tecniche, tra cui la tecnica del frottage.

Questa tecnica consiste nel sovrapporre un certo supporto, come un foglio di carta o una tela a una superficie che abbia dei rilievi più o meno marcati e, utilizzando una matita o un carboncino, lasciar affiorare a poco a poco i rilievi della superficie sottostante.
Ernst arriverà a raschiare via, mediante una spatola, lo strato di colore fresco per far affiorare il colore sottostante.

L’ultimo, ma non per importanza, è Salvator Dalì.
Come Magritte, non inventa forme nuove ma compone immagini reali, collocandole in posizioni irreali e spesso deformandole innaturalmente. Il suo è un autentico surrealismo, una trascrizione poetica della propria realtà interiore.

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Salvador Dalì, La persistenza della memoria, 1931, olio su tela, New York, Museum Of Modern Art

Rotti i freni inibitori della coscienza razionale, la sua arte porta in superficie tutte le pulsioni e i desideri inconsci, dando loro l’impressione e l’immagine di allucinazioni iperrealistiche. In Dalì non esiste limite o senso della misura, così che la sua sfrenata fantasia, unita ad un virtuosismo tecnico notevole, ne fecero il più intenso ed eccessivo dei surrealisti al punto che nel 1934 venne espulso dal gruppo dallo stesso Breton.
Ciò tuttavia non scalfì la sua produzione artistica che, anzi, si intensificò notevolmente nelle sue forme surreali.

Vi ho accennato quindi che il Surrealismo, come molte altre correnti, ha la capacità di manifestarsi in tanti campi culturali. Oltre a cimentarsi con la pittura, la fotografia o la scultura, arriverà a scontrarsi con Freud nel campo della psicoanalisi e sperimenterà anche nel cinema, dando al tutto un taglio documentaristico, semplice e diretto.

Scritto da Malerin

Iconografia del drago nella pittura giapponese

L’argomento che verrà oggi discusso per la rubrica Arte Tematica, risultato di un sondaggio che vi ha reso partecipi nella decisione del tema di cui tratterò oggi, riguarda l’iconografia del drago nella pittura giapponese.
Prima di fare ciò, ormai mi conoscete bene, vorrei fare una brevissima introduzione su questa figura mitologica, leggendaria e arcaica presente in tutte le culture, sia esse occidentali che orientali ma con concezione differente: mentre in occidente i draghi erano considerati l’incarnazione del male, portatori di morte e distruzione, in oriente erano visti come potenti creature benefiche e di buono auspicio.

Fin dagli albori dei tempi, i miti e le leggende sono state popolate da mostri incantati caratterizzati da una forza sovrannaturale. I più potenti erano i draghi: creature con il corpo da serpente, le zampe da lucertola, gli artigli d’aquila, le fauci da coccodrillo, i denti da leone e le ali da pipistrello. Venivano descritti come creature dotate di fauci e artigli taglienti, con arti anteriori e posteriori molto grandi e resistenti, capaci di sputare fuoco e di volare. Il loro sviluppo poteva durare molti secoli prima di raggiungere la piena maturità e grazie a questa loro longevità, queste creature, acquisivano una conoscenza e una saggezza senza pari.

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Addentriamoci ora nel  contesto orientale: i draghi sono presenti nell’iconografia dell’Asia da migliaia di anni, specialmente in Cina. I draghi presenti nella mitologia giapponese sono, infatti, stati importati dalla Cina nel corso del V secolo d. C. con le imbarcazioni mercantili.
La presenza dei draghi nella cultura giapponese la si può trovare nelle storie mitologiche e di antichi racconti del Kojiki e Nihongi, in cui vengono citati alcuni antichi draghi (per citarne qualcuno: Inari, Ryou, Mizuchi e molti altri).

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Katsushika Hokusai, Drago, inchiostro su tela, rotolo verticale

Sin dall’antichità si pensava che gli animali immaginari come il drago governassero la natura: con l’immagine del drago, che sale sulle nuvole in primavera e scende in letargo negli abissi delle acque in autunno, viene espresso il ciclo dell’anno naturale di quattro stagioni e attraverso di esso il cambiamento del tempo e delle quattro stagioni.

L’opera qui affianco è un rotolo verticale (kakemono) in cui viene raffigurato, con la pittura  ad inchiostro, un drago ascendente cioè intento a risalire dalle profondità delle acque per giungere in cielo. La rappresentazione di questo drago  sembra erompere potentemente dalle nubi, che si aprono al suo apparire e che quindi nascondono alcune parti del suo corpo. Questo è possibile grazie alla bravura e alla maestria dell’artista con l’inchiostro.

Per riconoscere un drago di Hokusai, di cui ne rappresenta moltissime versioni (con diversi formati, tecniche e materiali),  basta guardare il loro volto: li rappresenta con un aspetto allo stesso tempo terrifico e autoironico.

Da un’altra parte, abbiamo l’associazione drago e tigre, altrimenti definiti e utilizzati come vento e nuvole: il drago che salendo in cielo alza le nuvole, la tigre che ruggendo provoca il vento  e quindi un’immagine fortemente legata alla natura. L’associazione “drago tigre”, che implica l’unione del drago quale animale fantastico del pensiero cinese e della tigre abitante del mondo reale degli animali feroci, è simbolo del cielo e della terra e archetipo del pensiero cinese, e in quanto tale è divenuta l’immagine concreta del concetto dei due principi generatori Yin e Yang. Dall’altra parte c’è il fatto che per i giapponesi, popolo di agricoltori, la benedizione dell’acqua è strettamente legata alla vita, per cui la figura del drago pensato come produttore di nuvole, e quindi di pioggia, diventa immediatamente oggetto di culto e divinizzato come “divinità drago”.

Nella maggior parte dell’iconografia il drago veniva rappresentato insieme alle nuvole, mentre la tigre accompagnata dal vento. In Giappone fu un soggetto sempre più rappresentato dal Periodo Momoyama (1568-1615) perché sia tigre sia drago erano simbolo di forza e coraggio, dunque soggetti molto apprezzati dalla classe guerriera.
In questo doppio paravento (vedi sopra), si viene a creare un gioco di sguardi tra la tigre, sul ciglio di uno scoglio, e il drago, che sta discendendo dal cielo.

L’espressione pittorica del drago in Giappone, dal medioevo in poi, è perlopiù a inchiostro monocromo, come avrete di certo intuito dalle immagine che ho postato.
Secondo la letteratura, la rappresentazione del drago giunse dalla Cina nel XII secolo, durante il periodo Kamakura (1185-1333). A seconda dell’effetto che si otteneva dalle gradazioni dell’inchiostro nero poteva nascere una “illustrazione di drago a inchiostro” o una “illustrazione di drago nuvola”. Si pensa anche che in Giappone nel XV secolo fossero prodotte “illustrazioni di drago nuvola”, ecco due esempi:

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La rappresentazione del drago è un tema che affascina e viene ripreso più e più volte anche nella pittura moderna e contemporanea giapponese. Ma non è la sola pittura a immortale questa figura mitologica, abbiamo sculture e addirittura templi buddhisti a cui fa da guardiano.
Non dimentichiamoci anche che questa figura ha avuto e ha tutt’ora gran successo nel mondo degli anime/manga e nel mondo dei tatuaggi, arrivando fin qui, in Occidente, dunque rivalutando la sua connotazione negativa.

Scritto da Max

L’espressionismo di Kirchner

L’argomento che tratterò oggi per voi riguarda l’Espressionismo tedesco, un argomento difficile da inquadrare (e vedremo il motivo), analizzandovi poi le opere di Ernst Ludwig Kirchner.
Per chi si avvicina per la prima volta a questo tipo di arte (si tratta di un’avanguardia storica di primo Novecento), deve capire che cos’è l’espressionismo e quindi cercherò di spiegarvelo nel modo più semplice.

Il termine espressionismo indica un’arte dove prevale la deformazione, attraverso la semplificazione delle forme, di alcuni aspetti della realtà. Questo perché gli espressionisti volevano valorizzare l’espressione e le emozioni e lo facevano grazie all’uso di colori vivaci e brillanti. Quindi la pittura accesa ed emotiva che caratterizzò gli espressionisti si contrappose a quella, altrettanto vivace ma indifferente sul piano delle emozioni, che fu proprio dell’Impressionismo. Non si fa più riferimento all’occhio, alla percezione, al modo in cui si vede la realtà esterna, ma si presta invece attenzione all’introspezione, al modo in cui sensibilità individuale coglie il mondo.
Due sono le tendenze espressionistiche nate nei primi del Novecento: Espressionismo francese (Fauves  “belve, selvaggi”) e l’Espressionismo tedesco (Die Brücke, “Il Ponte”).

Nel clima apparentemente pacifico di inizio secolo, in Germania si agitavano tensioni politiche e sociali molto forti; il ferreo dominio della monarchia guglielmina favoriva lo sviluppo delle classi militari e nobili ed esercitava un rigido controllo burocratico sulla popolazione. In questo contesto veniva promossa un’arte ufficiale, volta a celebrare la casa regnante.
Va sottolineato che la storia del Paese era stata caratterizzata dal policentrismo, dall’antagonismo tra città senza la netta prevalenza di un centro unico.
Così, mentre in Francia le energie creative più importanti si addensavano nella capitale, in Germania le città emergenti furono sempre molte, ciascuna con una specifica tradizione da difendere e tramandare; ed è questa la difficoltà di inquadramento di tale corrente.
Le caratteristiche comuni a tutti gli espressionisti tedeschi furono un’aggressività sia estetica sia morale, un uso violento del colore, un’emotività esasperata, un desiderio di provocazione e di critica alla società, che non si trovano, invece, nei fauves francesi.

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Autoritratto con gatto

Tra i membri del movimento Die Brücke (“Il Ponte”), Kirchner è certamente il più dotato di talento e creatività: è lui la guida spirituale del gruppo, il punto di riferimento e il principale organizzatore.
Nella sua carriera dipinge più di mille tele e un numero ancora più alto di disegni, acquarelli, incisioni, illustrazioni per libri e decorazioni di interni. Tutta la sua vita e la sua arte sono caratterizzate da un invincibile desiderio di libertà, che lo porta a lavorare quasi sempre da solo e a non accettare mai compromessi con i mercanti d’arte, i critici e i collezionisti.
Qui a lato abbiamo un suo autoritratto con gatto (in molti ritratti c’è un gatto nero ahahahah).

Uno dei temi più amati dall’artista e dagli altri membri del gruppo Die Brücke è quello dei nudi femminili, spesso rappresentati sullo sfondo di un paesaggio, quasi a evidenziare la loro visione della vita legata alle forze primordiali della natura. Tra le molte modelle che posano per il gruppo si ricordano i nomi di Marcella e Fränzi.

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Kirchner dedica a Fränzi numerosi dipinti, tra cui questo a lato: Fränzi davanti a una sedia intagliata, opera di Kirchner del 1910.
In questa tela si nota l’espressione precocemente sensuale della ragazza, accentuata dall’uso non naturalistico dei colori: il volto della fanciulla è dominato dal colore verde, con alcune vigorose pennellate rosa e azzurre.
Dietro di lei si scorge lo schienale della sedia, decorato con una strana faccia, quasi certamente intagliata dallo stesso artista.

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Allo scoppio della Prima guerra mondiale Kirchner viene arruolato, ma il suo spirito individualista e ribelle gli impedisce di adattarsi alla disciplina militare.
Questi sentimenti sono espressi chiaramente nel celebre Autoritratto da soldato del 1915, in cui l’artista si ritrae con la divisa del 75° reggimento di artiglieria, davanti a un suo quadro raffigurante un nudo femminile. Ha la mano destra mozzata, simbolo della propria condizione sotto le armi.

Oltre ai temi dell’uomo nella natura, Kirchner ambienta molte opere nelle grandi città, da cui si sente attratto e insieme respinto, come dimostra nella serie di dipinti raffiguranti Scene di strada con gruppi di uomini e donne in primo piano. Queste tele si caratterizzano per le figure allungate e stilizzate, il predominio delle linee oblique e i forti contrasti cromatici, caratteristici della sua produzione berlinese.
Mentre le vedute parigine degli impressionisti trasmettono sentimenti di gioia e di serenità, qui l’artista sembra spaventato di fronte alle grandi vie animate da una gran folla in perenne movimento.

I volti dei personaggi, rivolti verso lo spettatore, ci appaiono vuoti e inespressivi, simili a quelli dei manichini, e rappresentano per l’artista la massa anonima e impersonale che popola la grande città tedesca.
Per di più l’uso di colori accesi e violenti accentua questa impressione di disagio e di ansia e crea un’atmosfera fredda e ostile.
Il punto di vista ravvicinato e leggermente abbassato esalta l’idea dell’affollamento della via e conferisce all’intera composizione un’atmosfera opprimente e claustrofobica: le persone raffigurate sembrano perfino un pericolo e una minaccia nei confronti dello spettatore.

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Ernst Ludwig Kirchener, Cinque donne nella strada, 1913, Colonia

Quest’opera è fortemente simmetrica e ricorda gli archi ogivali nell’architettura gotica tedesca: cinque figure femminili sono disposte a zig zag nello spazio del quadro, inscritte in una sorta di rombo la cui punta è al centro in basso; le due figure laterali guardano verso l’esterno e si intravede, a sinistra in basso, la ruota di un’automobile. In lontananza, in alto a destra, l’accenno ad un palazzo squadrato.
Le donne si stagliano su un fondo verde acido: il normale rapporto tra figura e sfondo viene invertito, ed è lo sfondo, quasi fluorescente, a presentarsi per primo ai nostri occhi.
Gli abiti, che seguono la moda in voga a Berlino, sono modulati sulle tonalità di un verde scuro dal nero, usato non solo come linea di contorno, ma come colore pieno. I volti sono pallidi e segnati da pesanti rossetti.

Come saprete si è tolto la vita nel 1938, poco dopo la mostra voluta da Hitler sulla cosiddetta “Arte degenerata”, in cui molte delle sue opere erano state esposte al pubblico per una derisione spietata.

Scritto da Max

 

Tadao Andō e la dimensione naturale

“Io creo un ordine architettonico sulla base della geometria… Tento di usare le forze dell’area dove sto costruendo, per ripristinare l’unità tra la casa e la natura, che fu perso nel processo di modernizzazione […]”

Fautore dell’armonica fusione tra la dimensione artificiale e la dimensione naturale, Tadao Andō viene considerato il più famoso architetto autodidatta del mondo poiché, prima di dedicarsi all’architettura, ebbe una carriera lavorativa molto varia.
La sua formazione si basa infatti sull’intensa lettura e su un elevato numero di viaggi che, da giovane, aveva intrapreso prima in Europa e poi negli Stati Uniti, per immergersi nello studio di architetture storiche e contemporanee.

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Fortemente influenzato dal movimento moderno e, soprattutto, dalle idee e dai criteri di funzionalità presenti nelle opere di Le Corbusier, le architetture di Andō sono saldamente legate alla tradizione giapponese per la resa dei dettagli. I suoi edifici si basano tutti sulla dimensione del tatami, orientativamente lo spazio occupato da una persona sdraiata (90 cm x 180 o, nel caso del mezzo tatami 90 cm x 90 cm) sulla tradizionale pavimentazione giapponese composta da pannelli rettangolari affiancati.

È quindi noto che il suo stile esemplare, che prevede solo l’utilizzo del cemento a vista associato al legno o alla pietra, evoca la materialità e il collegamento tra gli ambienti e, i suoi edifici sono spesso caratterizzati da volumi tridimensionali che si incrociano nello spazio, sia che siano all’interno o all’esterno.

Il suo approccio all’architettura viene talvolta classificato come regionalismo critico, un criterio che cerca di opporsi, privilegiando il contesto geografico, a quell’idea di mancanza di identità che caratterizza tutte le architetture contemporanee.

Due sono gli edifici che, nella loro complessità, sottolineano questo suo amore per la natura o, comunque, per gli elementi naturali: la Cappella sull’acqua a Tomamu del 1988 e la Chiesa della Luce a Ibaraki del 1989.

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Tadao Ando, Cappella sull’acqua, Tomamu, 1988

La Cappella sull’acqua è inserita su un altopiano delle montagne di Hokkaido, la regione più fredda del Giappone. In pianta, la cappella è formata dalla sovrapposizione di due quadrati, uno piccolo e uno grande, e si affaccia su un laghetto artificiale ottenuto deviando un ruscello che scorre nelle vicinanze.

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Tadao Ando, Particolare dell’arredo della Cappella sull’acqua

Un muro indipendente a L circonda il retro dell’edificio e un lato del laghetto. Alla cappella si accede dal retro e il percorso costeggia il muro. Il mormorio dell’acqua accompagna i visitatori lungo il percorso , senza che essi vedano il lago. Dopo una curva, si sale per un sentiero in lieve declivio, fino a raggiungere la zona di accesso alla cappella, chiusa sui quattro lati da vetrate, una sorta di contenitore di luce. Percorsa la cappella, il visitatore ritrova la vista del lago: attraverso la parete di vetro davanti all’altare si scorgono la distesa d’acqua e una grande croce.
L’arredo è stato progettato apposta per questa cappella, soprattutto le sedie. Queste hanno un effetto rilassante sul fruitore e riecheggia l’estro geniale di una chiesa che invita al risveglio dei sensi e alla fratellanza con la natura.

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Ora, invece, focalizziamoci sull’altro esempio, la Chiesa della Luce.

La Chiesa della Luce, progettata per Ibaraki Kasugoaka Church e ubicata nel quartiere residenziale di Ibarakisobborgo di Osakainvece, riprende tutti i temi profondi dell’architettura di Tadao Andō.

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Tadao Ando, Chiesa della Luce, Ibaraki, 1989

Lo spazio, il silenzio, la nuda geometria della forma prismatica, tagliata da un muro inclinato di 15 gradi e la luce che penetra dal taglio cruciforme sulla parete dietro l’altare, verso il quale si è accompagnati dalla lieve pendenza dell’edificio, realizzano uno spazio mistico che può avere eguali solo nella Cappella di Ronchamp di Le Corbusier. A differenza di questa, caratterizzate da forme curve e superfici inclinate, la Chiesa della Luce propone un semplice volume prismatico, costituito da tre cubi e tagliato da un muro che si ferma a 18 cm dall’intradosso della copertura, facendo penetrare all’intero una lama di luce.

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Vi si accede lateralmente, accompagnati dall’inclinazione del muro che taglia il volume, tornando verso il fondo ed entrando di colpo nell’aula ecclesiastica in calcestruzzo a vista, sulle quali la luce gioca un ruolo fondamentale in quanto, proiettandosi sulle pareti in modo variabile secondo il corso del sole, genera delle sensazioni che rendono lo spazio vibrante e pieno di tensione.

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Tadao Ando, Chiesa della Luce (particolare del taglio cruciforme)

Gli arredi e il pavimento dell’aula sono in tavole grezze di cedro scuro, seguendo uno spartano criterio di economia e di semplicità che rende il corpo dell’uomo partecipe dell’architettura

Tra il 1997-98 è stata progettata un’addizione, completata nel 1999, che comprende locali ad uso della comunità, uffici e servizi, in un volume separato dalla cappella mediante un muro di calcestruzzo parallelo a quello che interseca l’aula. Tra essi va ad inserirsi una scala, detta scala di Giacobbe.

Gli effetti di luce e di trasparenza di questo corpo di fabbrica, nel quale domina il legno chiaro, fanno da contrappunto alla controllata oscurità della cappella.

Voglio attirare la vostra attenzione su questo video che, utilizzando la tecnica del rendering, ci permette di percorrere e di vedere tutta la struttura e la bellezza di questa bellissima costruzione:

Per concludere vi lascio con una citazione dello stesso Andō per spiegare questa sua passione per la luce:

“La luce porta vita negli oggetti e unisce spazio e forma… ai mutamenti naturali affido il compito di produrre forme semplificate e il dispiegarsi di complessi scenari.”

Scritto da Malerin

Lewis Carroll e Jabberwocky

I racconti di Lewis Carroll hanno sempre affascinato grandi e piccini: il suo mondo, ricco di pazzia, di paradossi e di assurdità, ci ha sempre permesso di evadere, di lasciare temporaneamente questa dimensione sbiadita, per entrare in una realtà popolata da creature fantastiche e spesso stravaganti, una realtà in cui risulta quasi all’ordine del giorno prendere il the, in compagnia di un cappellaio e di un ghiro, o scontrarsi con un esercito il cui corpo è costituito da carte.

Lewis Carroll però non scrisse solo Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie ma scrisse anche un seguito, Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò: nato come semplice continuazione per sfruttare il grande successo del primo volume, questo libro risulta meno onirico e più malinconico, ancor più ricco di giochi di parole e proverbi.

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Illustrazione di John Tenniel: Alice, curiosa, decide di attraversare lo specchio per scoprire cosa ci fosse al di là

La storia, questa volta, inizia con un Alice curiosa, che si domanda cosa ci potrebbe essere al di là dello specchio e, riuscita ad oltrepassarlo, trova un diario contenente un testo incomprensibile, parole ricche di un significato che lei non riesce a comprendere: il Jabberwocky.

Jabberwocky (in italiano Ciarlestrone, Ciaciarampa, Tartaglione o Giabervocco) viene considerato il più illustre nonsense scritto in lingua inglese totalmente composto da parole inventate dallo stesso Carroll, un testo spesso studiato da molti autori e traduttori, che vengono stuzzicati da questa sfida nell’affrontare un bizzarro contenuto ricco di tranelli linguistici molto sottili e difficili da individuare, non solo da tradurre.
La maggior parte delle parole presenti rientrano nella categoria delle parole “macedonia”, vale a dire parole nate dalla fusione di due parole diverse che, il più delle volte, hanno un segmento, una parte in comune.

Vediamo ora qualche estratto:

“And as in uffish thought he stood
The Jabberwock, with eyes of flame,
Came whiffling through the tulgey wood,
And burbled as it came!

One, two! One, two! And through and through
The vorpal blade went snicker-snack!
He left it dead, and with its head
He went galumphing back. “

Tradotto in italiano:

“E mentre in bellico pensier si trattenea,
Il Ciarlestrone con occhi di brage
Venne sifflando nella tulgida selva
Sbollentonando nella sua avanzata!

Un, due! Un, due! E dentro e dentro
Scattò saettante la vorpida lama!
Ei lo lasciò cadavere, e col capo
Se ne venne al ritorno galumpando.”

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Jabberwocky in un’illustrazione di John Tennil

Quindi, questo Jabberwocky viene visto, nella poesia, come una creatura mostruosa, molto simile ad un drago, con occhi di fiamma e un’andatura traballante, un essere che vive nelle selve aspettando gli uomini che, ignari, se lo ritroveranno davanti. Questo mostro verrà però ucciso dalla lama della spada di un fanciullo, probabilmente il Re Rosso, visto che il diario dovrebbe appartenere a lui.

Questo nonsense è, però, per sua natura indefinibile, non è solo assenza di significato o negazione, ma si spiega attraverso se stesso, ponendosi al di qua e al di là del significato. Diventa quindi un’immagine speculare e capovolta della realtà, stranamente identica ma diversa che è, in un certo senso, la traduzione del linguaggio comune in un linguaggio proprio della fantasia, della follia, della trasgressione e, piuttosto che non significare nulla, decide di significare il nulla.

Alice stessa tenterà di dargli un significato ma, la sua prima reazione è quella di affermare “in some language… I don’t know”.

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L’incontro con Humpty Dumpty in un’illustrazione di John Tenniel

Si presume allora che, trovando una chiave, la poesia di possa leggere ma, non per questo darle un significato; quindi Alice l’accantona momentaneamente, fino all’incontro con Humpty Dumpty, l’arrogante personaggio dalla testa ad uovo che può dare alle parole un significato. Proprio a lui chiederà il significato della prima strofa, dandole però una spiegazione capricciosa e casuale.

Il nonsense di Lewis Carroll è, più di ogni altro, una pazzia, una pazzia che ha però un metodo.
Se analizziamo il Jabberwocky secondo i quattro livelli linguistici (fonetico, morfologico, sintattico e semantico), ci accorgiamo che i primi tre livelli sono del tutto normali, mentre il semantico è sicuramente bizzarro. I suoni risultano tutti pronunciabili, la morfologia e la sintassi sono regolari ma, quando ci troviamo davanti alla semantica, affrontiamo il vuoto.
Ci ritroviamo ad esplorare dei percorsi fatti da associazioni automatiche, con aree sfumate che cercano di dare a tutto un senso.

Descritta così, sembrerebbe una missione impossibile, ma in realtà numerosi sono stati i tentativi di traduzione, fin dai tempi dello stesso Carroll. In epoca più recente, questa poesia ha perso il suo carattere infantile e giocoso e, il tentativo di rendere la parodia finisce per uccidere la leggerezza della filastrocca.

Chi si è riavvicinato sicuramente al lato “infantile” è senz’altro Raphaël Urwiller, non tanto per la linguistica ma, nel rappresentare tutta la storia in nuovo libro illustrato, con immagini più giocose e meno inquietanti rispetto a quelle di John Tenniel.

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Tre colori a tinte speciali (rosso, verde e bianco avorio) raccontano della battaglia contro il mostro Jabberwocky, una specie di drago-serpente gigantesco che si trasforma quasi in un arcobaleno per piacere di più ai bambini.

Il Jabberwocky non compare però solo in letteratura o in album illustrati, ma anche nei film! Terry Gilliam dedicò un film alla figura di Jabberwocky nel 1977, dando al tutto un carattere divertente e dal sapore medievale, mentre in Alice in Wonderland di Tim Burton, sarà la stessa Alice a combattere contro Ciaciarampa, decapitandolo con la sua spada.

Scritto da Malerin

La festa dei lavoratori

La ricorrenza calendariale di oggi, la festa dei lavoratori, cade di domenica, ma noi ci impegniamo a “lavorare” anche oggi: lo facciamo perché ci piace mantenere una certa continuità, ma soprattutto per voi che ci seguite con interesse.

ART. 1.
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Come riportato dall’Art. 1, la nostra Costituzione è fondata sul lavoro, il che, a scriverlo, fa un po’ senso, visto le condizioni in cui versiamo oggi.
Non è tanto il lavoro ad essere l’oggetto di questa ricorrenza…e quindi, in cosa consiste questa festa dei lavoratori? Vediamolo insieme in questo articolo, soffermandoci anche sull’opera manifesto, la più significativa in questo contesto, di Giuseppe Pelizza da Volpedo.

1 maggio

La festa dei lavoratori viene celebrata ogni anno in molti Paesi del mondo, per ricordare i traguardi raggiunti dai lavoratori in campo economico e sociale, grazie anche all’aiuto del movimento sindacale. Questa festa, quindi, vuole anche ricordare tutte le battaglie operaie per conquistare un diritto ben preciso: la riduzione, a otto ore quotidiane, della giornata di lavoro. I primi a movimentarsi per raggiungere questo diritto furono gli Stati Uniti: se già nel 1882 si iniziarono ad organizzare le prime manifestazioni, sarà solo con i tragici eventi del 1-3 maggio 1886 che si avrà una vera e propria presa di coscienza pubblica.

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Illustrazione dell’epoca raffigurante la manifestazione di Haymarket square

In quei giorni, infatti, gli operai della città di Chicago si trovarono impossibilitati a lavorare poiché l’ingresso delle loro fabbriche era ostacolato della presenza di diverse macchine agricole poste davanti ai cancelli. La polizia, che venne chiamata per mettere fine all’accumulo di tutta quella folla, iniziò a sparare ai manifestanti facendo diverse vittime. In risposta a questa brutalità, gli anarchici locali organizzarono una seconda manifestazione da tenersi nella piazza di Haymarket (da cui la rivolta prese il nome), manifestazione che si concluse nello stesso modo, con la polizia che ricominciò a sparare e a mietere vittime.
A queste prime manifestazioni, ne seguirono molte altre che si estesero da Chicago fino al Canada, tutte terminate con l’uccisione per impiccagione dei rivoltosi.

Spostandoci in Europa, la festività del 1° maggio fu ufficializzata dai socialisti, prima a Parigi nel 1889 e poi in Italia due anni dopo. In quello stesso anno, la rivista La Rivendicazione pubblicava un articolo su questa nuova ricorrenza affermando:

“Il primo maggio è come una parola magica che corre di bocca in bocca, che rallegra gli animi di tutti i lavoratori del mondo, è la parola d’ordine che si scambia fra quanti si interessano al proprio miglioramento”

Durante il ventennio fascista, questa festività venne spostata dal 1° maggio al 21 aprile, in coincidenza con il Natale di Roma così che, oltre a festeggiare i lavoratori, si celebrasse la fondazione della città di Roma da parte di Romolo. Nel 1955, papa Pio XII decise di istituire la festa di San Giuseppe lavoratore, permettendo anche ai cattolici di festeggiare a pieno titolo questa ricorrenza.

Un’opera che può essere considerata il manifesto dell’impegno sociale e umanitario è, senz’altro, il dipinto a olio di Giuseppe Pellizza da Volpedo: il Quarto Stato. 

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Giusepe Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato, 1898- 1901, Milano, Museo del Novecento

Convinto che, nella società del tempo, l’artista avesse il compito di educare la popolazione, elevandola spiritualmente e culturalmente attraverso l’arte, Giuseppe Pellizza qui intende celebrare l’affermazione di una nuova classe sociale: il proletariato.

L’opera, frutto di numerosi anni di lavoro e preceduta da una serie di bozzetti e di disegni preparatori, rappresenta una folla di contadini e lavoratori che avanza verso l’osservatore, emergendo dallo sfondo di un paesaggio indefinito dominato da tonalità cupe. In primo piano, dove si concentra una luce piena e calda, troviamo tre figure, due uomini e una donna con un bambino in braccio, che guidano il corteo. La scena, probabilmente, è ambientata nella piazza di Volpedo e, i protagonisti, sono gli stessi abitanti che fungono da modello per l’artista.

Nella composizione notiamo due blocchi differenti: le tre figure in primo piano e la massa dei lavoratori alle loro spalle.

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Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato (particolare)

La donna con il bambino in braccio ha il volto della moglie di Pellizza, Teresa, che con il suo gesto sembra che voglia invitare la folla a seguirla: il movimento del corpo è sottolineato dalle pieghe svolazzanti della veste, che si avvolgono intorno alle gambe.
Al centro domina la scena quello che probabilmente è il leader della massa, un uomo che avanza tranquillo, con una mano in tasca e la giacca buttata sulle spalle, attirando la nostra attenzione con il vivido colore rosso del suo panciotto, in netto contrasto con il bianco candido della camicia. Alla sua destra, un altro uomo, con la giacca appoggiata sulla spalla sinistra, procede silenzioso e concentrato.

I contadini sullo sfondo formano una specie di quinta teatrale, disposti principalmente frontalmente; tutti i soggetti sembrano discutere tra di loro compiendo gesti molto naturali, come proteggersi gli occhi dal sole, portare un bambino in braccio o, semplicemente, volgere in avanti lo sguardo: tutto ciò sta a dimostrare un grande studio dal vero che l’artista ha compiuto prima di realizzare quest’opera.

In questo dipinto, la tecnica divisionista di Pellizza trova la sua più alta espressione, concentrando, in primo piano, i toni caldi e le gamme cromatiche più chiare, e quindi più luminose, disposte attraverso piccoli tocchi di colore.
È una situazione molto realistica, che sembra ripresa direttamente da un episodio di protesta sociale. La compattezza dei personaggi, gli atteggiamenti decisi e il procede in avanti verso l’osservatore, sono efficacissimi espedienti espressivi atti a creare allusioni sia al valore di solidarietà sociale sia alla presa di coscienza della propria forza poltica da parte di tanti individui che si sentono sempre più una “classe sociale” capace di rivendicare i propri diritti.

In questo quadro, tutto contribuisce a rendere l’idea di compattezza e unione di questa nuova classe che, attraverso numerose lotte, otterrà una posizione politica di importante peso nella società moderna.

Scritto da Malerin e Max

Umberto Boccioni: genio e memoria

Umberto Boccioni: genio e memoria è una delle mostre del palinsesto primaverile proposte dalla città di Milano, luogo di adozione del famoso pittore, che decide di celebrarlo con un’importante mostra monografica nel centenario della sua morte.

Con le sue 280 opere, questa esposizione brilla per la ricchezza e per l’indagine sulle fonti che, da Raffaello a Previati, hanno costituito la cultura visiva, quasi accademica, del giovane futurista. Questa sua ricchezza visiva ha nutrito tutto il suo percorso verso una nuova arte, un’arte universale che sia sintomo della modernità. La modernità emerge, infatti, con forza nella seconda parte della mostra, quella dedicata al periodo futurista: questa è la fase più famosa, più conosciuta di Boccioni, che qui viene presentata anche con opere innovative e poco conosciute, sottolineando continuamente la relazione fra la fase ideativa (e quindi il disegno) e la fase realizzativa, accostando cicli tematici e tante opere diverse. Un elemento di novità è quindi conoscere Boccioni per la sua grande bravura nel disegno, strumento di ricerca e di espressione che lo ha arricchito, poiché è proprio con il disegno che l’artista riesce a mantenere grande coerenza e a vitalizzare, energizzare le sue opere.

Vediamo ora, nello specifico, parti della mostra che io e Max abbiamo visitato in questi giorni.

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Lo studio approfondito e l’interesse spiccato per le fonti antiche confluisce in tre importanti diari dell’artista, stesi tra il 1907 e il 1908 e nelle carte che danno vita all’Atlante della Memoria, visibili all’interno della mostra.

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Diario di U. Boccioni, 1907

Se nei diari si può notare l’intenso e difficile percorso che l’artista compie durante il suo primo apprendistato, riempiendo le pagine dei taccuini di appunti e di schizzi relativi a dipinti realizzati o che realizzerà, nell’Atlante della Memoria trovano spazio solo quelle ricerche, rivolte alla cultura dell’Antico, che Boccioni ha selezionato nei primi dieci anni della sua vita artistica, riconoscendole come base imprescindibile della sua formazione; un po’ come fece poi Aby Warburg nel 1924, quando redasse il suo personale Atlante che denominò Mnemosyne (la dea greca personificazione della memoria), album ricco di ricerche sulla sopravvivenza e sull’influenza dell’Antico nella cultura europea.

Le fonti visive dell’Atlante hanno molteplici relazioni con le opere prefuturiste di Boccioni, ma alcune di esse rimasero comunque vivide nella sua memoria e riemersero, dai suoi ricordi, anche più tardi nelle opere futuriste.

Come detto precedentemente, in questa mostra monografica trovano spazio numerosi disegni: questi 60 fogli coprono tappe importanti della vicenda dell’artista, in un arco temporale compreso tra il 1906 e il 1916, anno della sua morte.

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Distribuiti come un filo conduttore lungo tutto il percorso espositivo, accostati talvolta alle opere definitive realizzate in seguito, questi disegni sono caratterizzati da un’ampia varietà di stili, di tecniche e di tipologie tematiche.

Guardando questi disegni si può notare anche come Boccioni, nella sua prima fase artistica, fosse profondamente legato alla tipologia del ritratto: se inizialmente si sofferma sullo studio della propria madre, che riprenderà poi anche in epoca divisionista (vedi le Tre Donne) e futurista (come del caso di Materia), durante lo studio dei grandi maestri antichi e contemporanei, Boccioni dipinse energici ritratti di gentiluomini e amici del suo tempo, come quello dell’amico Giorgio Gopcevich o del cavalier Giuseppe Tramello, dimostrando così la sua capacità di penetrazione psicologica dei personaggi e una forte sensibilità luministica.

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Durante il percorso della mostra si può constatare anche che, per la sua formazione artistica e intellettuale, fu vitale il trasferimento a Milano: continuando a realizzare opere sotto l’influsso di Giacomo Balla, Boccioni si avvicinò alle tendenze del divisionismo simbolista di Giovanni Segantini e Gaetano Previati.
Nelle pagine dei diari, i riferimenti a vicende e opere dei due artisti ricorrono numerosi: se di Segantini apprezzò soprattutto la rappresentazione in chiave simbolica della natura, del mondo pastorale e degli affetti femminili, di Previati lo colpirono lo spiritualismo e l’impegno teorico nello studio della tecnica artistica, tant’è che il fascino per le sue opere proseguirà fino alle fasi iniziali del futurismo.
Dal suo amore per il ritratto e per la tecnica divisionista, nascerà una serie di autoritratti del giovane artista.

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Infine, l’ultima tappa della biografia visiva dell’artista, che la mostra mette in luce, è senza dubbio quella più conosciuta e più famosa: il futurismo.

Boccioni, qui, sposta la sua ricerca verso una fusione dinamica tra lo spettatore, l’ambiente e lo spazio, tutto in continua trasformazione. La macchina e la velocità diventeranno i simboli principali della sua visione, che svilupperà sia in opere pittoriche come Elasticità e Antigrazioso, sia in opere scultoree, come Sviluppo di una bottiglia nello spazio o Forme uniche della continuità nello spazio, completa fusione fra figura, luce e ambiente circostante.

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Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio, 1913

In conclusione, è una mostra senza dubbio interessante, che mette in luce tutte le fasi di Umberto Boccioni e, anche se l’allestimento non è dei migliori (sia per questioni luminotecniche sia per distribuzione delle opere), è senz’altro un buon modo per celebrare questo grande artista nel centenario della sua morte.

Scritto da Malerin