Il malessere nell’Arte di Van Gogh

Anche oggi, abbiamo accolto la richiesta di una nostra lettrice, desiderosa di leggere qualche parola sull’opera di Van Gogh, in particolare: “Paesaggio con covoni e luna che sorge“. Ma prima di fare ciò, come mio solito, farò un breve contesto di introduzione, giusto per rendere il tutto più corposo e completo possibile.

Conoscete tutti Van Gogh, che non lo si sia studiato o non si è del campo dell’arte, tutti in un qualche modo lo conoscono: molti per il famoso taglio dell’orecchio, altri per le meravigliose opere della sua seconda fase artistica;  perciò non starò qui a dilungarmi troppo sulla sua vita.
Si tratta di un artista emblematico e dotato di grandissima sensibilità e geniale creatività, basta guardare qualche sua opera per capirlo.
La sua esistenza è stata un viaggio nel “tormento dell’isolamento”: incompreso e solitario nella sua esasperata ricettività del dolore, lucido e cosciente della propria malattia che era anche fisica, ma soprattutto dell’anima.
Autoritratti, nature morte, paesaggi, campi di girasole, tutti pervasi da una grande emotività ed una velata malinconia che hanno caratterizzato tutta la sua produzione artistica.
Non è propriamente esatto parlare di pazzia nei quadri di Van Gogh, come molti critici hanno definito, poiché il suo tormento derivava dal malessere di vivere, comune a molti autori, sia nell’arte che nella letteratura di quell’epoca.

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Gli autoritratti di Van Gogh, come potete osservare voi stessi dalle immagini qui sopra, sono la massima rappresentazione del modo in cui l’artista concepisce il suo ruolo: un personaggio marginale rispetto alla società, non integrato in essa, ma proprio per questo capace di vedere più lontano.
Van Gogh, durante la sua vita, dipinse molti autoritratti: tra il 1886 e il 1889 rappresentò se stesso ben 37 volte. In tutte queste opere, lo sguardo del pittore è raramente diretto verso l’osservatore. Anche quando lo sguardo è fisso, sembra guardare altrove.
Non è un fenomeno inconsueto che un artista dedichi opere alla sua immagine, ma nel caso di Van Gogh questo suo esercitarsi sul proprio ritratto indica non tanto spirito di narcisismo ma quanto di profonda solitudine. Quasi che non abbia possibilità di trovare altri modelli se non se stesso.

Dopo esser stato dimesso dall’ospedale di Arles (per il famoso episodio del taglio d’orecchio), Vincent non riesce a riorganizzare la sua vita né a metter su un nuovo studio. Attribuisce il suo esaurimento al bere eccessivo e forse al fumo, anche se non smette ancora: temendo una ricaduta, va volontariamente all’ospedale psichiatrico di Saint-Rèmy, a 15 miglia da Arles. La sua diagnosi è mania acuta con allucinazioni uditive e visive.

“Desidero restare rinchiuso tanto per la mia serenità quanto per quella degli altri”

Dal maggio 1889 a maggio 1890, tra allucinazioni e periodi normali, Van Gogh realizzerà 143 dipinti ad olio e 100 disegni. Un periodo terribile e fecondo, che lascerà al mondo alcuni capolavori immortali. Di cui, una in particolare, che ha colpito la nostra lettrice e che chiudeva la mostra d’arte al Palazzo Reale: Paesaggio con covoni e luna che sorge.

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Vincent Van Gogh, Paesaggio con covoni e luna che sorge, 1889

Un quadro che l’artista dipinse osservando quel paesaggio dalla finestra dell’ospedale in cui era ricoverato per gli attacchi epilettici, che frantumarono la sua psiche, ma non il suo spirito che guidava la mano.
I critici d’arte non erano mai stati in grado di trovare un accordo: quella grande sfera arancione seminascosta dalla cima di un monte in un celebre quadro di Van Gogh è una luna che sorge o un sole che tramonta? La controversia è stata risolta, con scientifica sicurezza, dagli astronomi: un gruppo di ricercatori della Southwest Texas State University, guidati dal professor Donald Olson, ha stabilito che l’astro dipinto dal maestro olandese è la luna. Grazie alla posizione della luna in cielo, i ricercatori hanno potuto stabilire anche l’ora e la data esatte della composizione: le 21,08 del 13 luglio 1889.
Il grano come un mare si raccoglie e addensa a ondate nei covoni, e la luna, di un giallo che la fa sembrare sole, emerge dalle colline galleggiando in un cielo di stelle biancheggianti. Una notte che rivela un giorno. La luna che rivela un sole, e rima, in terra, con il grano. Una notte di luce solare. Una notte di frumento.

Quindi, la pittura e le opere di questo artista riflettono a pieno gli stati d’animo di Van Gogh. I quadri, il modo di dipingere, le pennellate, i colori esprimono i suoi tormenti, le ansie, le angosce alternate da brevi e fugaci momenti di gioia e di serenità.
Significativa è una affermazione di Octave Mirbeau, uno dei pochi che capì immediatamente il valore della sua arte:

“Non si era immedesimato nella natura, aveva immedesimato in se stesso la natura; l’aveva obbligata a piegarsi, a modellarsi secondo le forme del proprio pensiero, a seguirlo nelle sue impennate, addirittura a subire le sue deformazioni […] “.

Sono sicuro che anche a voi la pensiate come me: un quadro di questo artista, è capace di immergere l’osservatore nei sentimenti celati dietro la tela. Tramite la sua pittura, Van Gogh trasporta lo spettatore all’interno dei suoi sentimenti, ansie, paure, gioia, tristezza. Ma la sua arte riesce a fare molto di più: è capace di far rivivere nell’osservatore le stesse emozioni, gli stessi sentimenti che l’artista ha dipinto sulla tela.

Scritto da: Max

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Sondaggio 2

Come accennatovi (non so dove) qualche giorno fa, abbiamo l’intenzione, prepotente e sfacciata, di scrivere una nuova rubrica e, in questo sondaggio, sarete chiamati a decidere le sorti di essa!
Essendo questa la decisione più importante della vostra vita ;), lasceremo aperto il sondaggio per due settimane, al fine di permettere a tutti di prendere una saggia decisione.

Le rubriche attualmente presenti, di cui abbiamo abbondantemente parlato, sono Ricorrenze artistiche e Interviste. Le proposte per questo nostro nuovo progetto sono:

Arte tematica → verrà affrontato un tema, come ad esempio la MORTE (scusate, ma oggi è lunedì), e lo analizzeremo da un punto di vista storico-artistico. Ecco, può essere uno spunto interessante per qualche possibile ricerca, elaborato o elogio funebre (per rimanere in tema 😀 );

Fuori Tema → verranno affrontati temi non inerenti alla storia dell’arte ma sempre legati a questo ambito, come la fotografia, la musica, la letteratura… (si dai, quelle arti lì, avete capito 😀 ). Anche in questo caso, può risultare interessante per degli approfondimenti.

Sondaggio 2: scelta di una nuova rubrica (chiusura sondaggio domenica 3 Aprile)

[VINCE]: Fuori Tema, ma terremo entrambe le rubriche.

Klimt e l’evoluzione del ritratto

Ecco il primo articolo scelto dai voi lettori attraverso un sondaggio. Sondaggio che prevedeva la scelta di un artista tra: Klimt, Courbet e Caracci. Ha vinto Klimt.
Per rimanere costantemente aggiornati ai prossimi sondaggi, vi invitiamo a seguire frequentemente questa pagina: https://spuntisullarte.wordpress.com/perche-questo-blog/sondaggi/

Nella sua produzione artistica, passando dallo storicismo accademico (di sua formazione) al modernismo internazionale, Klimt ha lavorato su molti temi tra i quali, fra tanti, ricordiamo: le allegorie, i disegni, i ritratti e i paesaggi.
Ho deciso di soffermarmi sui ritratti, perché si evince un’evoluzione sulla ritrattistica, che va dagli anni di fine Ottocento, caratterizzati da un forte realismo di impostazione classicista,  fino ad arrivare ai primi del Novecento, in cui il realismo del ritratto comincia ad essere impreziosito da elementi astratti e decorativi.

Ma vediamo nel dettaglio questo passaggio di stile, attraverso la visione di due opere realizzate per il volume Allegorie ed emblemi:

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Nel primo una fanciulla, che impersona la Favola, regge con la mano destra la penna con la quale vergherà il cartiglio arrotolato posto alle sue spalle sopra un piano roccioso. Attorno a lei vari animali selvatici alludono alle narrazioni di Esopo o di La Fontaine. Se qui il riferimento è il Rinascimento veneto (Giorgione e Tiziano) con i suoi incarnati dorati e il diafano emergere delle figure dall’ombra della vegetazione, nell’Idillio Klimt ricerca invece la massiccia corporalità e la tensione muscolare di Michelangelo, mentre nel tondo centrale riecheggia la dolcezza neoclassica di Raffaello.
Dopo la morte del padre e del fratello Ernst, nel 1892, Klimt, dopo un lungo periodo di depressione e di crisi creativa, elabora i caratteri della sua nuova poetica. Ne dà una prima e mirabile prova nella seconda edizione di Allegorie ed emblemi.
La differenza tra le tavole del 1882-’84 e quelle dl 1895-’97 è molto forte. Se nelle prime infatti l’interesse di Klimt per il nudo e l’ornamento è ancora bloccato e irrigidito da un’impostazione classicista e di maniera; le seconde, più leggere e delicate, organizzano lo spazio in maniera più libera ed efficace, rispondendo al meglio alle novità formali dell’epoca, come potete vedere voi stessi dalle opere qui sotto.

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In tutte l’immagine centrale, fortemente volumetrica e marcata dall’uso di neri decisi, è incorniciata da uno spazio vuoto o delicatamente stilizzato, che alleggerisce la composizione. L’uso di lumeggiature bianche e oro impreziosisce le figure secondo un preciso stilema, che diventerà uno dei tratti distintivi dello stile dell’artista.

Gustav  Klimt è passato alla storia come il più grande pittore dell’universo femminile. Le sue donne, consapevoli della propria sensualità – e talvolta spiate mentre si abbandonano al piacere (come la Danae); oppure androgine e spietate giustiziere del mondo maschile (come la Giuditta) – sono le uniche creature viventi a popolarne in modo continuo l’immaginazione.
Così anche in un quadro realistico come La famiglia del 1909 l’elemento maschile è eliminato dalla rappresentazione. La madre dei due bambini è infatti una vedova triste e malinconica, che riporta alla mente la commovente Donna anziana sempre del 1909.

Vediamo ora, come questo cambio di stile si rispecchia nelle opere ritrattistiche di Klimt.
Ci sono essenzialmente tre fasi:
– la prima, caratterizzata da un forte realismo, quasi di una fotografia.

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– la seconda, in epoca d’oro, caratterizzata dall’inserimento di elementi decorativi e geometrizzanti.
La peculiarità del periodo d’oro, che vede un massiccio e seducente uso dell’oro puro in foglia e carta dorata, consiste anche nel ruolo strutturale che questo colore assume nella pittura: come nel mosaico bizantino osservato in San Vitale (Teodora e la sua corte), l’oro klimtiano vuole trasfigurare la realtà e fissare l’immagine in una eterna sublime trascendenza, congelandola nella distanza e nella perfezione del metallo. L’uso che l’artista fa dell’oro ricorda la tecnica di Gentile da Fabriano: l’oro non è mai semplice fondale, ma, nelle due qualità di opaco e brillante, modula il rapporto tra le parti plastiche e quelle della superficie.

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– la terza, in pieno stile fiorito, in cui Klimt abbandona i fondi oro e il minuto decoro geometrico, accantona i soggetti mitologici e i residui di classicismo, aggiornando la propria pittura sull’esempio di innovazioni coloristiche di Van Gogh e Matisse.
Il mosaico prezioso, che irrigidisce in eleganze bizantine i quadri allegorici, viene sostituito da un variopinto tappetto di fiori e di motivi orientaleggianti.

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Nei numerosi ritratti femminili della società benestante del tempo, Klimt non si dimostra molto interessato all’indagine psicologica delle sue modelle. Quello che più conta per lui è la possibilità di fare incontrare il realismo volumetrico dell’incarnato con i motivi astratti e geometrici della sua fantasia.

Gustav_Klimt_046[1].jpgNel ritratto di Adele Bloch-Bauer, per esempio, il contrasto tra la resa realistica del viso e la decorazione ornamentale del vestito fa sì che la donna appaia incastonata come un gioiello prezioso, perdendo così tutto ciò che di troppo soggettivo e occasionale vi è a volte nel genere ritrattistico.
In questo ritratto, il periodo d’oro raggiunge il suo apice: si ha uno spazio agglutinato e dovizioso di ornamenti; l’abito diventa una tunica di metallo splendente della stessa materia della poltrona in fondo.

Nel luccicore degli ori e nella fitta vegetazione di quadrati, spirali, triangoli, ovoidi, occhi, i contorni della figura a campana restano ambigui. Solo il volto perlaceo e le mani intrecciate nervosamente sfuggono alla “metallizzazione” e appaiono come ritagliati nell’intarsio.

Voglio lasciarvi con un film, visto pochi giorni fa e che mi è piaciuto, inerente al ritratto di Adele Bloch-Bauer. Suppongo lo abbiate giù sentito e visto, ma è sempre bene ricordarlo anche per chi non se lo fosse visto.

Vi lascio il link del trailer (lo trovate in streaming):


Scritto da: Max

Dürer e il trittico Meisterstiche

Grande pittore, incisore, matematico e trattatista, con la sua versatilità, Albrecht Dürer viene considerato il massimo esponente della pittura rinascimentale tedesca.
Dotato di talento artistico fin dalla giovane età, entrò, come praticante, nella bottega del padre orefice ed è qui che iniziò a familiarizzare con le tecniche di incisione dei metalli che, più tardi, daranno frutto ai suoi più celebri lavori a bulino e acquaforte.
Al padre viene attribuito anche il suo amore per i grandi maestri fiamminghi, come Jan van Eyck e Rogier van der Weyden, il cui studio contribuirà, insieme a quello per gli artisti italiani, alla nascita di un proprio stile che supererà la pittura gotica che caratterizzava la Germania di fine Quattrocento.

Durante i suoi lunghi viaggi per l’Europa, la sua fama viene spesso associata alla sua abilità di ritrattista, nelle cui opere dimostra una notevole capacità di approfondimento psicologico, come si può vedere nell’Autoritratto con i guanti del 1498.

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Albrecht Durer, Autoritratto con i guanti, 1498, Madrid, Museo del Prado

In questo dipinto a olio, l’artista si ritrae a mezza figura, voltato verso destra e con lo sguardo rivolto allo spettatore: Dürer si mostra, qui, nei panni del gentiluomo, raffinato ed elegante, che riflette la sua consapevolezza di appartenere ad una aristocrazia intellettuale, ad uno status di pittore in quanto artista e non come artigiano.
Estremamente curata è l’acconciatura resa in fitti ricci lunghi e biondi, la barba definita con precisione e i vestiti scelti con cura, che lo dipingono come un giovane colto ed elegante, degno di far parte delle classi sociali più elevate.

Albrecht Dürer, però, è stato apprezzato, ancor più che come pittore, come incisore. Nelle sue opere, comprendenti circa 340 xilografie, bulini e acqueforti, emerge una complessità tecnica e un’elaborazione iconografica singolare. Erasmo da Rotterdam arriverà ad affermare che Dürer ha superato Apelle perché, per creare, non aveva bisogno del colore ma solamente di alcune linee nere. La sua abilità di incisore raggiunge l’apice in tre stampe, eseguite tra il 1513 e il 1515, conosciute anche come incisioni maestre e facenti parte di un trittico, il trittico Meisterstiche. Queste tre stampe sono Melencolia I, il Cavaliere, la morte e il diavolo e San Girolamo nella cella.

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Albrecht Durer, Trittico Meisterstiche, 1513-1515, Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle

Le tre incisioni, sebbene non legate dal punto di vista compositivo, rappresentano tre esempi di vita diversi legati, rispettivamente, alle virtù morali, intellettuali e teologiche. Questa distinzione trova le sue radici nella tradizione classica riletta in chiave cristiana; infatti, queste tre virtù vengono spesso affiancate alle virtù teologali.
Le tre incisioni si presentano ricche di particolari e il loro significato va cercato nell’insieme che intendono comunicare: ciascuna incisione, sembra rimandare ad una visione del mondo che possiamo definire tipica dell’umanesimo cristiano.
Le tre lastre sono realizzate a bulino, una tecnica di incisione cava che non prevede la morsura di acidi per scavare il solco nella lastra ma, il segno è ottenuto tramite l’azione dello scalpello che asporta il metallo, conferendo alla stampa un segno netto e preciso.

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Albrecht Durer, Melencolia I, 1514, Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle

Melencolia I ritrae una figura femminile alata seduta, in atteggiamento pensoso, presso un muro in prossimità di uno specchio d’acqua. La donna è circondata da strani oggetti, di natura disparata e appartenenti tutti al mondo alchemico, lasciati in totale disordine: una bilancia, una clessidra, attrezzi da falegname, un solido geometrico (un troncato romboedrico), una campana, un coltello e una scala a pioli. Accanto a lei ci sono anche un putto e un cane scheletrico addormentato. Altri simboli, che si ritrovano nell’incisione, associabili al sentimento della malinconia possono essere la cometa e l’arcobaleno, posti sullo sfondo.
L’atteggiamento della donna, con la testa appoggiata alla mano stretta a pugno, è assorto e pensoso: sul suo volto si possono notare i segni tipici della malinonia, al quale allude anche il titolo riportato in alto a sinistra.
L’opera, simbolicamente, rappresenta, in termini alchemici, le difficoltà che si incontrano nel tentativo di tramutare il piombo, assimilato alle anime tenebrose, in oro, ossia le anime splendenti.

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Albrecht Durer, particolare del Quadrato magico, 1514

In questa incisione compare anche un elemento particolare, un quadrato magico: la somma dei numeri posti orizzontalmente, verticalmente e in obliquo da sempre lo stesso risultato, 34; 34 è anche il risultato ottenuto sommando i numeri dei quattro settori quadrati in cui si divide il riquadro, la somma dei quattro numeri al centro e dei numeri posti agli angoli. Inoltre, se si prendono i numeri centrali dell’ultima riga, si legge il numero 1514, anno in cui è stata creata l’opera.

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Albrecht Durer, Il cavaliere, la morte e il diavolo, 1513, Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle

Il cavaliere, la morte e il diavolo chiude la serie delle ricerche del maestro circa l’anatomia del cavallo: in questo gruppo, il maestoso animale visto di profilo, ha il ritmo, le proporzioni e il modellato di un monumento equestre e ricorda il Monumento di Bartolomeo Colleoni del Verrocchio che Dürer poté vedere a Venezia. Il cavaliere, si ispira alla figura del soldato cristiano nel Miles christianus di Erasmo da Rotterdam, che deve affrontare tre sleali nemici, la carne, il diavolo e il mondo. Chiuso nell’armatura della fede, il cavaliere affronta coraggiosamente la morte che tenta di spaventarlo mostrandogli una clessidra simbolo del tempo che gli rimane da vivere, e un mostruoso diavolo, che lo insegue impugnando un’alabarda. Le fattezze del diavolo e della morte sono mostruose, l’uno con muso da maiale e corna demoniache, l’altra in forma di cadavere a cavallo.
I dettagli naturalistici sottolineano la bravura e la perfetta padronanza che Dürer ha del bulino. In basso a sinistra, vicino al memento mori di un teschio, si vede una lastra, su cui compare il monogramma dell’artista e la data di creazione dell’opera, preceduta della lettera “S” di Salus, Salvezza.

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Albrecht Durer, San Girolamo nella cella, 1514, Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle

La rappresentazione di San Girolamo era assai frequente nel Rinascimento e, nelle opere di Dürer ricorre più volte, prima in una xilografia del 1492, poi in uno studio a penna del 1511 e infine sarà oggetto di un altro dipinto, datato 1521. Il santo viene qui rappresentato nel suo studio: una piccola cella ordinata, pervasa da una luce soffusa che entra dalle grandi finestre. La costruzione prospettica, la scelta e la disposizione degli oggetti, la posizione del protagonista, il suo abbigliamento modesto servono a conferire alla scena un’atmosfera di contemplazione, di serena beatitudine, che è l’aspetto più originale dell’incisione.
In primo piano si notano il fedele leone e un cagnolino. Tra i numerosi riferimenti simbolici spicca anche il teschio appoggiato sul davanzale della finestra, chiaro memento mori.

Grazie alle sue capacità di incisore, l’opera di Dürer divenne un tramite fondamentale tra la cultura figurativa nordica e quella del rinascimento italiano.

Scritto da Malerin

Sondaggio 1

Abbiamo constatato che la maggior parte di voi lettori è poco incline a commentare, farci sapere le proprie opinioni o valutare i nostri articoli. Ciò rende difficile impostare un lavoro che possa essere di alta qualità e il più fruibile a tutti (quello che per noi potrebbe andar bene, per altri può essere fatto male).
Le critiche, sia esse buone o negative, ci aiutano a migliorare la qualità del nostro lavoro.

Considerato ciò, abbiamo creato questa rubrica “Sondaggi”, per rendervi partecipi del nostro lavoro: se non venite voi da noi, veniamo noi da voi!! 😀

Sarete chiamati, dunque, a rispondere a dei sondaggi, che possono riguardare vari ambiti: la scelta dei prossimi articoli, la valutazione del nostro lavoro complessivo, o perché no la creazione di nuove rubriche.

Purtroppo i sondaggi verranno inseriti all’interno di questa pagina, in quanto incapaci, per il momento, di inserirli sul Widget (ci stiamo lavorando ahahah).
Per tale motivo, la pagina sarà tenuta costantemente aggiornata, non vi sanno dunque sondaggi vecchi e arretrati, ma solo quelli nuovi e correnti.

P.s
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Sondaggio 1: scelta del prossimo articolo (articolo del 20/3 – Max)

[Vince Klimt]

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Vincenzo Ragusa e la rappresentazione del volto in Giappone

Come tutti voi saprete, spero, grazie anche ai mille eventi culturali in programma e pubblicizzati  in ogni dove (di cui potrete annotare e prendere visione qui: http://www.it.emb-japan.go.jp/150/pdf/programma_150.pdf), il 2016 è l’anno in cui ricorre il centocinquantesimo anniversario del Trattato di amicizia e di commercio tra Italia e Giappone. Si tratta di un anno estremamente importante, dal mio punto di vista, perché sancisce un forte e consolidato rapporto di amicizia, che dura tutt’ora, nonostante le difficoltà incontrate e patite durante le guerre.
E come potevo io, non parlare di tale evento e dedicare un articolo?

Prima di addentrarci con l’argomento principale, incentrato sulla figura di Vincenzo Ragusa, è doveroso fare un breve sunto sul contesto storico del Giappone di fine Ottocento: era il 1853 quando il commodoro Mattew Perry guidò una spedizione di quattro navi da guerra nella baia di Edo (antica Tokyo), per stabilire un rapporto commerciale tra gli Stati Uniti e il Giappone. In questo modo mirava a favorire l’apertura del Paese che fino a quel momento aveva optato per un rigido isolazionismo, il cosiddetto periodo sakoku (letteralmente “paese incatenato”). Sei anni dopo l’arrivo del commodoro americano il porto di Yokohama si apriva finalmente alle potenze straniere attraverso il trattato di amicizia e commercio.
Con l’apertura dei porti, il Giappone si è visto introdurre nuove tecnologie e scienze (come ad esempio la fotografia) che lo portarono ad una rivoluzione e modernizzazione culturale senza precedenti.
Anche l’Italia ha contribuito a tale modernizzazione culturale in particolare in campo artistico. Personaggi come Edoardo Chissone (incisore), Giovanni Vincenzo Cappelletti (architetto), Antonio Fontanesi (pittore) e Vincenzo Ragusa (scultore), alla fine del XIX secolo hanno introdotto in Giappone, con l’insegnamento e la pratica, lo spirito e le tecniche dell’arte occidentale.

Vincenzo Ragusa si trasferì in Giappone tra il 1876 e il 1882 in quanto vincitore di un concorso per insegnare presso la Kobu Bijutsu Gakko (Scuola Tecnica di Belle Arti), in cui lavorarono come docenti anche Cappelletti e Fontanesi.
Vincenzo Ragusa si impiegò presso la Scuola d’Arte Industriale di Yokohama e qui insegnò le tecniche scultoree ed in particolare quelle della tecnica a fusione in bronzo, una pratica scultorea fino a quei tempi non ancora sperimentata in Giappone.
Il contributo di Ragusa in Giappone fu infatti entusiasmante e fondamentale per lo sviluppo di questa particolare tecnica scultorea, per la quale realizzò numerose opere, che oggi si conservano presso il Museo Nazionale di Tokyo ed il Museo della Tokyo University of the Arts (Tokyo Geijutsu Daigaku).

FotoJet CollageUn aspetto innovativo introdotto da Vincenzo Ragusa in Giappone fu la rappresentazione del volto umano. Numerose le sculture in ceramica ed in bronzo che raffigurano volti umani di persone comuni: giovane donna  giapponese, l’attore giapponese, la donna anziana, la moglie, la figlia, e molti altri ancora (come si evince dalle immagini qui a lato).
Potrà sembrare alquanto strano ad un contesto culturale occidentale questa particolarità, ma nella rappresentazione artistica giapponese la raffigurazione di ritratti femminili o maschili non era di consuetudine.
Infatti i giapponesi provavano molto imbarazzo per il realismo tipico dell’arte occidentale.

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Vincenzo Ragusa, Tama Kiyohara, 1878-’79

Il primo di numerosi ritratti di gente comune è il busto, in bronzo, della futura moglie Tama Kiyohara che realizzò tra il 1878 ed il 1879.
Nel 1879 fu anche ricevuto dall’Imperatore Meiji per il quale realizzò diverse opere ed anche un ritratto attualmente conservato a Kōkyo (Residenza Imperiale).
Tuttavia in Giappone l’opera di Ragusa così come quella di Fontanesi fu molto valorizzata e diffusa soprattutto dal pittore Seiki Kuroda.
In seguito alla partenza di Vincenzo Ragusa nel 1882, non dipendente dalla volontà dello scultore siciliano, ma a causa della chiusura della scuola per motivi finanziari, l’influenza della tradizione artistica italiana andò diminuendo a poco a poco e gli artisti giapponesi iniziarono a cercare nuove fonti d’ispirazione per le loro creazioni.

Giunto a Palermo, sulla scia anche delle concrete esperienze di William Morris in Inghilterra, Ragusa, aveva istituito una Scuola Superiore d’Arte Applicata per la  conoscenza e la diffusione delle tecniche artistiche orientali.
È molto probabile che proprio per finanziare questa scuola Ragusa decise di vendere al Museo Etnografico Pigorini di Roma la sua grande collezione di opere artistiche ed oggetti orientali.

Sia Fontanesi che Ragusa sono stati sempre considerati dalla letteratura artistica giapponese due artisti molto famosi che hanno contribuito alla creazione dell’arte moderna nipponica.

Spero in futuro che ci possano essere più iniziative e scambi culturali, come quelli organizzati per tale ricorrenza, perché sono molto interessanti e ci avvicinano a una cultura nuova e lontana, arricchendo il nostro animo.

Scritto da: Max

 

 

 

 

La versatilità di Gian Lorenzo Bernini

“Huomo raro, ingegno sublime e, nato per disposizione divina, e per gloria di Roma a portar luce al secolo”
(Urbano VIII)

Con queste parole, Papa Urbano VIII Barberini elogia Gian Lorenzo Bernini: nato nel 1598, questo artista, considerato il più geniale sperimentatore ed interprete dei valori e dello spirito della propria epoca, dominerà, con il suo talento, la cultura figurativa barocca per oltre sei decadi.
La sua concezione dell’arte, alimentata da una fervida immaginazione e da una tecnica prodigiosa, si basava sul rapporto sperimentale con la tradizione, da lui stesso studiata (dalla scultura ellenistica di Pergamo fino a Michelangelo e ai Carracci), reinterpretata però in maniera energica, tant’è che, durante la sua lunga carriera, la sua arte  verrà spesso sostenuta dalle cariche ecclesiastiche più imminenti del tempo.

Tramite il padre Pietro, anche egli scultore ma di stampo manieristico, il giovane Gian Lorenzo entra precoce in contatto con la committenza romana e, verso la metà degli anni dieci del secolo, attirerà l’attenzione del cardinale Scipione Borghese, protagonista di spicco della vita culturale e mondana della Roma del Seicento.
Per il cardinale Borghese, realizzerà la sua prima opera, la Capra Amaltea, scultura che fin da subito rivela le sue capacità tecnico-formali, assimilabili alla tradizione ellenistica.

Dal 1618 al 1629, l’artista rimane impegnato nell’esecuzione di monumentali gruppi scultorei  come l’Enea e Anchise, il Ratto di Proserpina, il David, l’Apollo e Dafne ma, è anche il periodo in cui realizzerà, insieme al padre Pietro, la famosa Barcaccia. 

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Pietro e Gian Lorenzo Bernini, La Barcaccia, 1628-29, Roma, Piazza di Spagna

Posta ai piedi della scalinata di Trinità dei Monti, questa fontana ha la forma di di una nave appoggiata al suolo: collocata all’interno di un’altra vasca di forma ellittica, la nave presenta la prua e la poppa, di forma identica, rialzate rispetto al bacino sottostante; al centro della barca, un corto balaustro sorregge una piccola vasca da cui tracima l’acqua., il tutto ornato dallo stemma pontificio della tiara e delle api. L’acqua sgorga da altri sei punti, due dalle sculture antropomorfe a forma di sole, gli altri da fori circolari, simili a bocche di cannone, rivolti verso l’esterno. Si tratta di una soluzione originale, in quanto la fontana-nave potrebbe alludere alla nave-chiesa guidata con sicurezza dai Barberini, oppure, rimandare ad un racconto del 1598, secondo cui una barca sarebbe giunta lì fin dal Tevere. L’ubicazione dell’opera a livello del suolo fu una scelta obbligata per questione di natura idraulica, dovute alla scarsa pressione presente in quel punto della piazza.

Con l’appoggio delle personalità religiose più illustri, Bernini poté sviluppare il proprio linguaggio esuberante in condizioni di totale libertà, approfondendo l’idea di una scultura monumentale e sfarzosa, carica di riferimenti allegorici, in cui i vari linguaggi artistici si intrecciano con l’obiettivo di potenziare gli effetti illusionistici, come si può vedere ne L’Estasi di santa Teresa d’Avila.

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Gian Lorenzo Bernini, l’Estasi di Santa Teresa d’Avila, 1647-’52, Roma, Santa Maria della Vittoria

Collocata all’interno della cappella Cornaro, una delle prime commissioni private affidate a Bernini dopo essere stato escluso dalle preferenze ecclesiastiche, il miracolo dell’estasi di Teresa è inscenato in un complesso meccanismo scenografico, che comprende sia il gruppo scultoreo collocato al centro del tabernacolo, sia la volta decorata con stucchi raffiguranti episodi della vita della santa. Al centro, quindi, di questa cappella in marmi policromi, sono collocate le figure dell’angelo e della santa, quest’ultima, adagiata su una nube di pietra che da l’impressione di galleggiare nel vuoto. L’illusionismo della scena è accresciuto dal fiotto di luce che proviene dall’alto, che scivola lungo i raggi di bronzo che sovrastano il gruppo. L’opera vive il suo culmine drammatico nella figura di Teresa pervasa dall’amore divino impersonato dal sorridente angelo-Cupido che sta per trafiggerle il cuore con una freccia d’oro. La sua figura appare riversa e in stato di trance, con la testa rovesciata all’indietro, gli occhi chiusi e la bocca semiaperta, invenzione che l’artista svilupperà, un ventennio più tardi, nella Beata Ludovica Albertoni. Assistono a questa teatralità, nei panni di veri e propri testimoni, i membri della famiglia Cornaro, disposti sui fianchi della cappella, affacciati come se avessero preso posto in un palco da proscenio teatrale.

L’impresa di San Pietro costituirà il trampolino di lancio della carriera di Bernini come architetto, prima con la realizzazione del Baldacchino e, poi, con il progetto della piazza, incarico ricevuto da Papa Alessandro VII nel 1656.

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Gian Lorenzo Bernini, Piazza San Pietro, 1656-67, Città del Vaticano

 

Papa Alessandro VII commissiona a Bernini una grande piazza che, sull’esempio de quadriportici delle basiliche paleocristiane, assolva il duplice compito di costituire un ingresso maestoso e solenne della chiesa e di offrire accoglienza e riparo alle masse di fedeli e pellegrini. A lungo il nostro artista cercherà una soluzione che risolva i problemi strutturali e visivi lasciati aperti dall’allungamento del corpo della chiesa e dalla incompiuta facciata del Maderno, per optare, infine, per un monumentale e scenografico spazio a pianta ellittica che, nel coniugare funzionalità e spettacolarità, avrebbe risolto i problemi in chiave percettiva tramite accorgimenti ottici.
L’organismo della piazza è costituito da due parti distinte: la parte ellittica, formata da due braccia semicircolari di colonne di ordine tuscanico in quadruplice fila ornato da 162 statue, e la cosiddetta piazza retta, a pianta trapezoidale, che collega l’ellisse alla basilica tramite due gallerie rettilinee e divergenti che si saldano all’estremità della facciata. La piazza retta funge così da trampolino visivo che, allontanando e innalzando la facciata, ne completa il riequilibrio proporzionale.

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Gian Lorenzo Bernini, particolari del colonnato della piazza ellittica, 1656-67, Città del Vaticano

 In conclusione, dopo aver analizzato diversi punti del suo repertorio artistico, si può dire che Bernini rimodella e dà nuova linfa alla tradizione classica, imprimendole una vitalità positiva e solare che attinge, con rispetto, al repertorio dell’antico.

Scritto da Malerin

Intervista a noi poveri plebei

Oggi vogliamo condividere con voi un evento importante, o per lo meno, per noi.
Si tratta di un giorno speciale in quanto siamo stati chiamati a fare una cosa che non ci saremmo mai sognati di fare.

Vi starete chiedendo di cosa si tratta? 
Nonostante il blog sia stato creato da poco, verso la fine di febbraio, qualcuno si è interessato al nostro lavoro (cosa alquanto insolita trattandosi di noi), dedicandoci un’intervista.
Abbiamo intuito, quindi, che i nostri articoli siano apprezzati da qualcuno e questo ci rende felici, perché siamo solo all’inizio del nostro percorso e siamo desiderosi di crescere insieme a voi.

Vi starete chiedendo, a questo punto, chi ci sia dietro a questa pazzia?
Ebbene, purtroppo, non fa parte di testate giornalistiche importanti,  ma si tratta di un giornale universitario, “Quarto d’ora accademico” (è pur sempre un punto di partenza).
L’intervista è incentrata sul nostro lavoro: abbiamo spiegato le nostre ragioni circa la nascita di questo blog, soffermandoci sulle nostre idee e su riflessioni future, come ad esempio l’eventuale nascita di nuove rubriche riguardanti temi interessanti (di cui ovviamente non possiamo anticipare,  per *segreto professionale* e anche perché vogliamo lasciarvi con un po’ di suspance).
Tuttavia, vi lasciamo la possibilità di leggere l’intervista integralmente, cliccando qui il link: http://www.quartoaccademico.it/wp/2016/03/11/spunti-sullarte-interessante-blog-da-beni-culturali/

Speriamo che in futuro ci siano altre occasioni di questo genere, perché da un lato sono esperienze che ci danno la possibilità di crescere e, dall’altro lato, ci da l’impulso di migliorarci e continuare il nostro lavoro per noi e per voi che ci leggete e ci sostenete (sempre che voi leggiate gli articoli).

Scritto da: Max e Malerin

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Artemisia Gentileschi

Auguro una buona giornata a tutte le lettrici che ci seguono!! Oggi come avrete intuito non è domenica, ma è martedì 08 marzo, giorno insolito per pubblicare articoli.
Ebbene pubblichiamo questo articolo per inaugurare la nostra nuova rubrica dedita alle festività caledariali, ovviamente da un punto di vista artistico, di cui potrete seguire e avere informazioni più dettagliate qui: (https://wordpress.com/page/spuntisullarte.wordpress.com/879).

Approfittiamo della giornata delle donne per parlare del loro ruolo nell’arte, soffermandoci, poi, sulla figura di Artemisia Gentileschi.
Talvolta ci si chiede quante donne siano entrate a far parte della Storia dell’arte. La nostra memoria è affollata di così tanti nomi maschili che, nell’immaginario collettivo, c’è sempre la presenza di un uomo con pennello e scalpello intento a realizzare un quadro o una scultura.
E le donne? Per molti secoli restano “invisibili” fra le mura di casa o di un convento, dedite alle arti cosiddette minori quali il ricamo, la tessitura e la miniatura.
Nel Medioevo non possono intraprendere alcun tipo di apprendistato nelle botteghe d’arte o artigiane; per cui fino al Cinquecento viene repressa e ignota ogni loro aspirazione artistica. (per approfondire meglio questo argomento, vi consiglio la lettura di questo articolo tratto da un mensile di informazione culturale intitolato Letture: http://www.url.it/oltreluna/edicola/donnal’altramet%E0dell’arte.htm).
Nel 1562 era sorta a Firenze l’Accademia europea del Disegno, ma solo nel 1616 vi fu ammessa una donna. Si trattava di Artemisia Gentileschi, la maggiore pittrice del Seicento, fra i massimi artisti italiani d’ogni tempo. Tre anni prima del suo ingresso in Accademia, Artemisia aveva già dipinto il suo capolavoro “Giuditta che decapita Oloferne” (di cui parlerà Malerin), una tela che rievoca il cruento episodio biblico trattato anche da Caravaggio.

Chi è Artemisia Gentileschi?
Artemisia Gentileschi è stata definita un’icona del femminismo moderno, ma forse sarebbe più corretto ritenerla una singolare forma di eroismo femminile, che prende forma da un processo di autonomizzazione dal collettivo. Ciò nonostante, è una grande artista, una tra le pittrici e senz’altro la più originale dell’epoca (XVII secolo), “l’unica donna in Italia“, a detta di Roberto Longhi, “che abbia mai saputo cosa sia la pittura“.
Infatti, anche coloro che la reputano una “minore” le riconoscono una capacità del tutto peculiare.
In Artemisia vi è la scoperta di una grande novità: la dimensione dell’alterità pittorica, di un differente modo di rappresentazione e di vedere la realtà, fino a quel momento caratterizzata al maschile; un modo espressivo “di genere” antichissimo, eppure del tutto nuovo perché fino a lei lasciato nel silenzio.
Lei, che per prima ha dipinto volti femminili autentici, strappati alle iconiche interpretazioni maschili, divenendo pura interprete del femminismo, viene degradata ad un mero oggetto sessuale.

La donna, infatti, viene ricordata più che per il suo talento artistico, per la tragica vicenda che la colpì, ossia lo stupro perpretato dal pittore Agostino Tassi, amico del padre e suo maestro di prospettiva. Questo orribile evento si rispecchia in alcune fra le prime opere della giovane, come Susanna e i vecchioni del 1610 dove, nelle figure dei due uomini è impossibile non associare il padre di Artemisia, Orazio, e il maestro Agostino e nella tela che raffigura Giuditta che decapita Oloferne del 1620.

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Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1620, olio su tela, Firenze, Galleria degli Uffizi

Il soggetto di questa tela è tratto dall’Antico Testamento: l’eroina della Bibbia Giuditta, esempio di virtù e di castità, viene rappresentata, insieme ad una ancella, nell’atto di tagliare violentemente la testa del suo rivale e nemico Oloferne, un condottiero assiro da lei ingannato con la seduzione.
Con la sola eccezione della Giuditta e Oloferne di Caravaggio, conservata a Roma, non era mai stata dipinta una scena così drammatica come quella raffigurata in questa tela.
La fonte di luce proveniente da sinistra, che illumina i corpi dei personaggi, conferisce al dipinto un forte coinvolgimento drammatico, accresciuto anche dall’inquadratura serrata. Gli squarci di luce mettono in rilievo le figure dei tre protagonisti della scena. Le tonalità cupe sono tipiche del barocco e contribuiscono a conferire un tocco di teatralità alla scena. I gesti e gli sguardi delle due donne sono studiati nei minimi dettagli, così come il disperato tentativo del guerriero che oppone, anche se invano, tutta la forza per impedire che l’eroina possa tagliargli la testa. I colori luminosi e vibranti, in particolare quelli della veste di Giuditta, esaltano tutta la femminilità della giovane.

Con la sua cruenza, l’opera è stata interpretata, dai critici, in chiave psicologica, come un desiderio di rivalsa di Artemisia verso la violenza sessuale subita ad opera di Agostino Tassi. Roberto Longhi, nel 1916, arriverà ad affermare:

<<Ma -vien voglia di dire- ma questa è la donna terribile! Una donna ha dipinto tutto questo?  […] qui non v’è nulla di sadico, che anzi ciò che sorprende è l’impassibilità ferina di chi ha dipinto tutto questo…>>

La tela, probabilmente dipinta per Cosimo II de’ Medici, viene completata a Roma appena dopo il ritorno dell’artista, dopo sette anni trascorsi a Firenze. Per la sua violenza, l’opera fu confinata nel seminterrato di Palazzo Pitti e, solo dopo la morte di Cosimo II, Artemisia venne pagata e la sua opera collocata negli Uffizi, anche grazie alla mediazione dell’amico Galileo. Del quadro, però, esiste una prima versione, più piccola e con una cromia differenze che risale al 1612-13, conservata al Museo nazionale di Capodimonte.

Negli anni subito successivi al processo, la giovane artista iniziò a distaccarsi dalla propria famiglia, assumendo il cognome Lomi e conducendo la propria vita a Firenze; ma il suo successo non avrà limiti e approderà anche a Venezia e a Napoli, città dove venne stimolata da tutti quei cantieri e dalle nuove possibilità di lavoro. La sua fama raggiungerà anche l’Inghilterra, dove collaborerà con il padre alla decorazione a soffitto della Casa delle Delizie per la regina Enrichetta Maria.

Per la giornata della donna, abbiamo deciso di omaggiare questa pittrice che, come tante altre donne, è finita nelle grinfie dell’uomo sbagliato; abbiamo voluto ricordare la sua storia e i suoi meriti poiché fu una delle prime a voler emergere in un mondo che, purtroppo, non permetteva alle donne di essere ciò che desideravano.

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                                                                                            Scritto da: Max & Malerin

Lo spazio spirituale e interiore di Monet: il ciclo delle Ninfee

‹‹Le Ninfee sono opere che possono essere comprese appieno soltanto da anime di sognatori, da coloro che chiedono alla pittura gli incanti della musica››
 Claude Monet

Non so voi ma io trovo particolarmente affascinante la serie delle Ninfee di Monet. Riescono a trasmettere, a chi osserva l’opera, sensazioni di serenità, pace e tranquillità.
Trovo che abbiano un forte impatto visivo ed emotivo e allo stesso tempo siano di una raffinatezza incredibile.
Dunque mi è sembrato doveroso scrivere questo breve articolo, sperando che possa suscitare, a voi lettori, le mie stesse sensazioni.

Negli ultimi ventinove anni della sua vita, Monet li dedicherà a dipingere le famose Ninfee, ossia 250 variazioni pittoriche di un unico e poetico tema, che segnano il culmine creativo ed espressivo dell’artista e il suo ingresso ufficiale nel nuovo secolo.
Il progetto delle Ninfee, preludio alle Grandi decorazioni che sarebbero state realizzate per l’Orangerie, nacque come naturale conseguenza dell’opera di trasformazione botanica del giardino della tenuta del Giverny, che Monet aveva realizzato con grande cura e passione.
Il suo amore per il giardinaggio si accordava infatti con la sua sensibilità cromatica e pittorica e con la sua cultura artistica.
Le aiuole variopinte, le numerose specie floreali, i glicini, gli iris, le siepi, il prato, gli arbusti con le loro fronde ombrose e i famosi pioppi (di cui dedicherà un ciclo di 15 tele) erano gli elementi di una composizione armonica e “impressionista”, costituita da un effetto “a macchie” di colori brillanti e luminosi, come un vero tableau vivant della sua pittura.

Fu, poi, lo stagno con le ninfee, costruito su un terreno attiguo al giardino della villa e ottenuto grazie a una diramazione del fiume Epte, a stimolare in particolar modo la fantasia pittorica, sostanzialmente acquatica di Monet. Oltre alle ninfee galleggianti sullo specchio d’acqua, Monet aveva piantato, tutto intorno, salici piangenti e piante esotiche costruendo, anche, un ponticello a schiena d’asino in legno, tipico dei giardini giapponesi e presenti nelle numerose stampe che ornavano le pareti della casa di Giverny.
Questo grazioso elemento rappresenterà, spesso, nelle realizzazioni pittoriche dello stagno, l’unico elemento spaziale e reale a dare un senso di profondità e di costruzione figurativa.
Lo stesso soggetto, il giardino acquatico attraversato dal ponte, viene ripreso da angolazioni diverse, in varie ore del giorno, in differenti stagioni e con una luce sempre differente; l’intento è quello di dare ogni volta una nuova impressione visiva.
Nelle opere successive Monet restringe il campo visivo, dipingendo esclusivamente le ninfee.

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Claude Monet, Ninfee, riflesso di un salice piangente, 1916-19

La capacità di rendere in modo naturale e sfumato riflessi delicati e cangianti della superficie dell’acqua fu sempre una caratteristica della pittura di Monet; adesso, però, nel dipingere questo luogo da lui stesso creato questa abilità diventa vero e proprio “sentimento” cromatico, spazio continuo e infinito, senza linea d’orizzonte né prospettiva, in cui l’acqua e il cielo si fondono in un’armonia lirica di colore puro e di luce.
La fisicità reale dello spazio e la descrizione del soggetto vengono aboliti a favore di uno spazio spirituale e “interiore”, che è quello, poi, dell’arte astratta e informale, che, al principio del Novecento, comincia a essere teorizzata.

Monet nel 1908 aveva cominciato ad accusare gravi disturbi alla vista, degenerati poi in una doppia cateratta, che gli verrà parzialmente rimossa, con tre operazioni chirurgiche, solo nel 1923. Durante questi anni, egli continuò sempre a lavorare alle Ninfee, accusando spesso momenti di scoramento e depressione per la sua imprecisa percezione dei colori.
Le difficoltà sfociavano, spesso, in attacchi d’ira che lo portarono persino a distruggere alcune tele; altre volte, invece, la sua visione dei colori recuperava uno stato normale per cui egli approfittava per fare le necessarie rettifiche.

Dal 1914, anno della morte del figlio Jean e dell’ingresso della Francia nel primo conflitto mondiale, si dedicherà con passione al progetto delle Grandi decorazioni, che donerà allo Stato francese nel 1922, realizzando decine di tele di dimensioni enormi (fino a otto metri) in cui il paesaggio acquatico, si trasformerà in uno spazio sconfinato e silenzioso che coinvolge l’osservatore in una sensazione di durata temporale, in cui le infinite variazioni della luce sembrano depositarsi e dissolversi sulla materia cromatica.

Monet ha condiviso con noi il suo spazio spirituale, interiore e riservato, rendendoci partecipi di questa meraviglia. Ci vuole un buon animo per fare certe cose!

Ecco a voi, tra le tante, le opere che maggiormente preferisco 🙂

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                                                                                                                     Scritto da: Max